Ricordo di un viaggio

Agosto 1989

La Romania di Ceaușescu


La decisione è stata presa all’improvviso insieme al fratello, alla cognata di Rossana e a nostra figlia Francesca, così abbiamo caricato sul nostro FIAT 238 adattato a camper le attrezzature da campeggio, il gommone, e siamo partiti per Budapest.

Il progetto era quella di trovare un campeggio e poi raggiungere Budapest navigando sul Danubio e le cose sono andate proprio così; ma dopo qualche giorno cominciavamo ad annoiarci, allora è nata l’idea di visitare il castello di Dracula in Romania.

Settecento chilometri da percorrere in due tappe, la prima a Timisoara e poi Bran, a dire il vero non sapevamo a cosa stessimo andando incontro fin quando non siamo arrivati al confine rumeno.

Un militare ha aperto la sbarra per poi lasciarci, per più di un’ora, bloccati tra due cancelli, senza notizie e rigorosamente chiusi nel furgone, poi quattro militari armati di Kalashnikov ci fanno scendere, da prima rovistano tra i nostri bagagli, poi scaricano il gommone e quindi cominciano a smontare parti del furgone.

Terminato il minuzioso, quanto inutile controllo, lasciano a noi l’incarico di risistemare il tutto tenendoci d’occhio con i mitra puntati fino al momento in cui arriva un funzionario con in mano i nostri passaporti e una pila di documenti da compilare, tra i quali anche la richiesta di ottocento marchi, quale cauzione per il motore del gommone, perché temevano che la nostra intenzione fosse quella di venderlo, agevolando la fuga via mare di qualche cittadino rumeno.

All’imbrunire siamo finalmente liberi di varcare il confine di questo misterioso paese.

Attraversiamo paesi di poche e colorate case con i tetti di paglia, ma di alberghi e trattorie neppure un’insegna, mentre, a bordo strada, troneggiano i cartelloni in lucido metallo che rappresentano il dittatore Ceaușescu.

È ormai buio quando troviamo l’insegna d’un albergo, ma la porta è chiusa e le luci sono spente, allora provo a suonare un campanaccio e quando la porta si apre, escono un forte odore di muffa insieme a un trasandato signore ritratto della miseria; passato lo stupore per il sinistro incontro, chiedo se si può pernottare e cenare e la risposta in un Italiano stentato è singolare quanto l’accoglienza: “Mangiare niente, luce niente, acqua niente, per dormire brandine, per pagare voglio caffè, pasta o liquori.” Resto sbalordito, non so che dire, il tempo per riprendermi e capire, che il tizio aveva già chiuso la e sprangato la porta.

Continuiamo la nostra strada verso Timisoara, quando vediamo un bar ristorante con tutte le luci accese e dei tavolini all’aperto “Finalmente si mangia!” diciamo in coro. Il locale è vuoto e un cameriere si precipita a prepararci un tavolo e ci chiede cosa vogliamo mangiare porgendoci un menù in rumeno, ma ogni cosa che chiediamo è finita, c’è solo gulasch e birra alla spina.

La birra arriva subito ed è anche buona pur contenuta in un boccale mal lavato, ma ciò che merita maggior osservazione è il gulasch, che altro non è se non una lavatura di piatti, dove galleggiano macchie di grasso e affonda un osso spolpato, stiamo tutti e cinque lì a guardare i piatti a testa bassa poco convinti, quando un signore passa vicino al tavolo e convinto dice: “Chorba prima qualità”. Allora alziamo la testa e scopriamo che il locale non è più vuoto, sono arrivate molte automobili, vecchie Renault 12 e Trabant, ma la gente non s’accomoda ai tavoli o al banco, si dispone a cerchio intorno a noi e quando alzo la testa, per osservare questa strana usanza, tutti mi salutano sorridenti. Nei miei viaggi non mi era mai capitata una cosa del genere e non sapevo cosa pensare.

Rossana decide di andare in furgone per prendere una felpa e appena s’avvia tutte le donne la seguono in un’ordinata fila, quando poi torna al tavolo ci racconta che sia le giovani, che le vecchie, volvano vestiti e cibo pagando con pacchi del leu.

La famiglia più coraggiosa si siede accanto a noi e, sforzandosi di parlare in Italiano, ci avvisano che fino a Bucarest non troveremo da dormire e da mangiare e neppure benzina.

Dalla tanta gentilezza con cui tutta questa brava gente ci trattava ho capito che l’incontro con degli stranieri occidentali era un evento eccezionale.

Avevamo instaurato un rapporto rispettoso ed amichevole e il capo famiglia rumeno si fa coraggioso e ci invita a casa sua, spiegandoci che i Rumeni sono ospitali e non possono lasciare dei turisti in mezzo a una strada ed è così che ci troviamo a seguire una scassata Renault 12 nei quartieri popolari di Timisoara.

Dopo aver attraversato un labirinto di strade, parcheggiamo davanti a uno dei tanti palazzi di stile sovietico e saliamo le scale dall’aria pericolante e asimmetrica fino all’appartamento dei nostri ospiti.

La moglie del padrone di casa butta giù dal letto i figli e cambia le lenzuola in tutte le camere offrendoci i loro letti, mentre in salotto si radunano amici e parenti portando vecchie bottiglie di liquori, in Italia ormai non più in commercio, costudite gelosamente e offerte solo nelle grandi occasioni.

La situazione è quanto meno strana, noi stiamo seduti davanti al tavolo coperto da una tovaglia di pizzo ricamata ad uncinetto, con i bicchieri riempiti di vermut rosso Antico, mentre dall’altra parte siedono i Rumeni ed uno alla volta con ordine e gentilezza ci pongono domande su com’è la vita in Italia e se davvero si poteva guadagnare tanto da poter dar da mangiare alla famiglia due volte al giorno.

Mentre rispondiamo alle domande come in un talk show, io mi sento un alieno capitato in un mondo sconosciuto dove per essere ricchi basta avere un pane al giorno, o il caffè per la mattina; allora per ridimensionare la loro irreale idea del benessere occidentale cerco di convincerli che in Europa non è facile trovare lavoro e che tutto costa molto caro ed è difficile arrivare a fine mese, in risposta alle mie considerazioni prende la parola il capo famiglia:

“Lo so, che non è facile ma a noi basterebbero dieci marchi al giorno, anche chiedendo la carità, e potremmo vivere meglio di qui, tu non lo sai, ma il pane possiamo averlo una volta alla settimana ed è difficile trovare burro o latte, la mia famiglia è da due giorni che non mangia. Il riscaldamento in questi palazzi non funziona e d’inverno fa molto freddo, per scaldarci lasciamo accesi i fornelli a gas, ma il governo la notte senza avvisare blocca l’erogazione del gas, poi la riapre prima dell’alba, in questo modo molte famiglie sono morte asfissiate, anche in questo palazzo”

Anche il cugino si fa coraggio:

“Lavoro, lavoro, quello si c’è sempre, passano a prenderti alle sei e trenta del mattino per portarci in “robota” (fabbrica), poi restiamo seduti in terra fino alle sette della sera, senza far niente, in silenzio, perché non c’è niente che funziona. Ma io, cinque anni fa ho fatto domanda per il passaporto e quando lo avrò, potrò andarmene in America”

I suoi connazionali lo guardano ridendo e il nostro ospite replica:

“Il passaporto! Eh già il passaporto, se continua così, non lo vedranno neppure i tuoi nipoti, la tua domanda è carta straccia”

Mentre chiacchieriamo mescolando, Il Rumeno, con l’Italiano, L’inglese e il tedesco, ci viene in mente che in strada c’è il nostro furgone targato straniero e di chiedere se questo potrebbe essere un pericolo; la frase non è terminata che i gli invitati Rumeni s’alzano di scatto e fuggono dall’appartamento, mentre il nostro ospite tremante dice: “Presto, presto! dobbiamo spostare il furgone nel piazzale dell’albergo internazionale”

Scendiamo le scale di corsa, apriamo la porta e… la polizia è già li!

Kalashnikov con il colpo in canna, puntati sulla schiena, ci spingono contro il muro con le mani alzate, veniamo perquisiti, poi mi fanno aprire il furgone e rovistano tra i bagagli, terminata la perquisizione mi chiedono i documenti, trattengono i passaporti e le chiavi del furgone e, mentre uno di loro resta di guardia, gli altri salgono all’appartamento per una perquisizione.

Fortunatamente non avevamo regalato generi alimentari o vestiti e finalmente i poliziotti, non trovando il corpo del reato, ci permettono di parlare, così io provo a spiegare la situazione:

“Siamo turisti Italiani, arrivati ora e cercando un Hotel ci siamo persi tra questi palazzi, non riuscendo a ritrovare la strada abbiamo suonato a un campanello e siamo saliti per farci spiegare come raggiungere l’Hotel”

Il capo dei poliziotti prende per buona la mia versione, mi consegna la chiavi, ma non i passaporti e mi fa capire di seguirlo.

Arriviamo nel parcheggio di un fatiscente Hotel, mi fa chiudere il furgone, poi bussa con prepotenza alla porta dell’Hotel che sembra chiuso da molto tempo. Nessuna luce s’accende, ma dall’altra parte della porta si sentono rumori e un borbottio infastidito, la polizia insiste e il portinaio è costretto ad aprire anche se è già in pigiama, naturalmente davanti agli uomini in divisa s’inchina diventando mite ed ossequioso.

Entrando nell’Hotel il portinaio ci avvisa che non c’è la luce e neppure l’acqua e che domani mattina avremo un’ora per la doccia dalle sei alle sette, poi la colazione, con caffè, pane burro e marmellata, sarà servita alle otto e fino a quell’ora non potremo uscire dall’albergo.

Il poliziotto consegna al portiere i nostri passaporti e ci presenta il conto; si può pagare solo in marchi o in dollari e il prezzo è quello di un hotel a quattro stelle di Londra, poi i nostri passaporti vengono messi in cassaforte insieme ai marchi.

Non possiamo uscire per prendere in furgone i nostri bagagli, saliamo le scale accompagnati dal portinaio che ci fa luce con una pila, fino alle camere che dall’odore di muffa e dalla polvere sui vecchi e malconci mobili, non dovevano essere state aperte e pulite da almeno un anno.

Dalla finestra della camera potevo vedere l’auto della polizia parcheggiata a fianco del nostro furgone, con i poliziotti che facevano la guardia.

La mattina avrei voluto fare la doccia, ma questa era un inutile rigagnolo d’acqua fredda; poi per colazione ci hanno servito una bevanda calda simile ad un caffè e dei crackers vecchi e rammolliti, con un grammo di burro e delle marmellate di vari colori, tutte dello stesso sapore di dentifricio alla fragola.

Finalmente siamo liberi di risalire in furgone e di visitare il centro storico di Timisoara, ma abbiamo la costante impressione di essere pedinati; all’improvviso, da dietro una colonna, sbuca un ragazzo sulla trentina, scalzo, con lunghi capelli raccolti in una treccia, aveva lo stile di un hippie anni sessanta ed era una cosa molto strana nella Romania di Ceaușescu. Avvicinandosi mi sussurra:

“Parlo Italiano e Inglese, non preoccuparti se quando ti volti non mi vedi più, io so sparire quando c’è una spia del regime, poi ci penso io a ritrovarti”. Un “rivoluzionario” ci mancava, adesso eravamo pedinati dalla polizia, dalle spie del regime e da un rivoluzionario. Continuiamo a passeggiare fermandoci davanti ad un negozio di scarpe con una vetrina che espone tristemente un solo paio di scarpe di cuoio nero lucido; numero quarantuno c’era scritto sul cartello e il prezzo in Leu corrispondeva circa a milleottocento lire.

Il commesso mi guarda stupito, forse non s’aspettava che a Timisoara ci fosse un turista interessato all’unico pio di scarpe in mostra, allora s’affaccia alla porta e mi parla in rumeno, cerco di capire, ma scuoto la testa e gli dico: “Sono Italiano” così inizia una conversazione in una lingua italo-rumena da cui capisco che il regima di Ceaușescu impone ogni anno un tipo di scarpa e solamente di una misura per il 1989 è uscito il numero quarantuno, il resto della produzione è esportato. Prosegue dicendomi: “Lei ha il numero quarantatré, se vuole posso sistemarle le scarpe come faccio solitamente, taglio la punta e allungo la scarpa con della stoffa robusta e un pezzo di suola”, naturalmente ho rifiutato gentilmente, ma è da quel momento che ho cominciato a guardare le scarpe calzate dai Rumeni.

Avevo un pacco di Lei, che nessun negoziante voleva, ma che al confine mi avevano costretto ad acquistare. Considerato che al negozio di scarpe non avevo comprato, ho proseguito il tentativo di shopping in un negozio di dischi, dove ho trovato una vecchia raccolta di musiche di Bela Bartok ed altri vecchi dischi in vinile pesante. Trasferita una discreta quantità di Lei al venditore mi volto e alle mie spalle ricompare il “rivoluzionario”, che fingendo di guardare i dischi mi sussurra: “Ci incontriamo nella cattedrale, segui la strada e passa il ponte sul fiume Bega, la vedi alla tua destra”

Raggiunta la cattedrale ci sediamo in silenzio, mentre tre anziane signore, dopo averci osservato con sospetto, fanno il segno della croce ortodosso e se ne vanno, passa poi un prete con l’abito talare che ci saluta con un cenno del capo, ma il “rivoluzionario” ancora non si vede, fin quando alle mie spalle, come fosse la voce di un fantasma: “Perché siete venuti in Romania? Come avete fatto a passare il confine?”. Veramente non avevamo un motivo particolare per visitare la Romania, rispondo: “Turismo, vorremmo raggiungere la Transilvania e visitare i luoghi della leggenda di Dracula. Per entrare in Romania abbiamo avuto qualche difficoltà, ma principalmente abbiamo dovuto sborsare un bel po’ di marchi”

Si avvicina di più sporgendosi in avanti: “Scordatevi di raggiungere la Transilvania, non troverete benzina, non troverete da mangiare e neppure da dormire, l’unica strada percorribile è quella che porta a Bucarest, ma anche là troverete miseria e fame, forse non lo sapete che il dittatore ha vietato la vendita e l’uso di qualsiasi tipo di anticoncezionale, perché vuole che nascano più bambini, ma le famiglie sono troppo povere e i bambini finiscono abbandonati nella capitale. Se riuscirai ad arrivare a Bucarest ne vedrai tanti che, come topi, si rifugiano nelle fogne e, per non sentire fatica e dolore, s’intontiscono respirando il solvente dentro a dei sacchetti di plastica”

Senza voltarmi, sussurro: “Perché non vi ribellate?”, ma alle mie spalle non c’era più nessuno.

Usciamo dalla chiesa ed eccolo che ricompare, mi chiede una sigaretta e risponde: “Non abbiamo armi e nessuno ci supporta, mentre la polizia speciale del dittatore è violenta e ben armata”; poi non ci siamo più visti.

Timisoara l’abbiamo visitata, in furgone abbiamo da mangiare, possiamo dormire e un pieno di benzina ci permette di percorre ottocento chilometri, decidiamo così di proseguire verso la Transilvania.

Il nostro furgone è l’unico mezzo a motore che sta percorrendo questa strada, superiamo carri trainati da cavalli e biciclette che spuntano dalle campagne circostanti, attraversiamo paesini che sembrano rimasti fermi agli inizi del Ottocento. Poco prima di Deva incontriamo una grande cementificio che con i fumi dipinge tutto il paese e le persone di un grigio polveroso e neppure gli alberi sono verdi, facciamo sosta in un bar frequentato da lavoratori grigi, silenziosi e tristi che bevono delle bibite colorate di verde, giallo e rosso, ne ordino una anch’io quella gialla, ma ha lo stesso sapore di dentifricio alla fragola che avevano le marmellate del grand Hotel di Timisoara, allora provo quella verde, cambia il colore, però il sapore è lo stesso.

Attraversiamo il centro della città, allo stop di un incrocio, una giovane mamma alza il figlio neonato verso il mio finestrino, ma non riesco subito a capire che cosa vuole, poi comprendo alcune parole: “Porta via in Italia, è mio figlio, per favore!”, La cosa mi spaventa, perché questa donna ha le lacrime agli occhi ed anche se cerco di farle capire che non voglio, cerca di consegnarmi il figlio attraverso il finestrino aperto, allora schiaccio l’acceleratore e parto guardando dallo specchietto retrovisore quella scena di dolore che s’allontana, e non capisco se quello che sto provando è solo rabbia, oppure anche un senso di colpa per non poter cambiare le cose. Dopo chilometri mi rendo conto, che siamo nuovamente seguiti dalla polizia, inoltre la lancetta de carburante segna che è rimasto poco più di mezzo serbatoio e per il castello di Bran mancano circa trecento chilometri, probabilmente riusciremmo a raggiungere la meta, ma non a ritornare senza rifare un altro pieno di benzina. Il viaggio si fa troppo incerto e questo regime di polizia, che va ad aggiungersi alla disperata povertà della gente, ci fa prendere una decisone all’unanimità: “Ritorniamo in Ungheria, subito!”.

Decidiamo di cambiare strada, attraversiamo i parchi di Conop e di Milova, percorrendo sterrati immersi in una natura selvaggia e bellissima, oltrepassiamo villaggi dalle piccole e colorate case con i tetti di tavelle in cotto ed anche in paglia, e tutto sembra immobile e ordinato. Incontriamo un borgo dove troneggia una vecchia fornace che produce mattoni e dai camini espelle un fumo rossiccio, che dipinge il paese, gli alberi e la gente.

È pomeriggio quando arriviamo all’ultimo distributore prima del confine con l’Ungheria e la spia della riserva si è già accesa, mentre aspetto con pazienza il mio turno per fare il pieno mi avvicina un rumeno, che, parlando in Italiano:

“Questo è l’unico distributore che oggi ha benzina in Romania, e si possono fare solo quindici litri”, e dicendo questo guarda insistentemente i miei buoni, poi riprende il discorso:

“Devo andare a trovare, mia sorella che non vedo da anni, sta male e forse è l’ultima volta che potrò incontrarla, ma con quindici litri di benzina non potrò arrivare fino a Bucarest”.

In effetti con la vecchia Lada, stracarica di passeggeri e bagagli, quel po’ di benzina non gli sarebbe bastata per percorre i quasi seicento chilometri da qui a Bucarest, quindi gli chiedo:

“Perché mi racconti questo, che cosa vuoi?”

Era evidente che aveva bisogno dei miei buoni per fare il pieno così supera i convenevoli e mi dice:

“Mi puoi vendere i buoni? Li pago bene” e mi mostra un pacco di Leu.

“Lascia stare i LEI e sposta la tua macchina accanto alla mia, ti faccio il pieno, ma stiamo attenti che nessuno se ne accorga”.

Mentre il suo serbatoio si riempie, estrae dalla tasca un pacco di marchi, dicendo:

“Questi li ho risparmiati per anni, quanto vuoi?” E mentre continuo a riempire il serbatoio gli rispondo:

“Non voglio soldi”

Deve aver pensato che ero un tipo scaltro e che un pieno di benzina valeva molto di più dei soldi, ci voleva qualcosa di più tangibile, qualcosa di raro e allora si avvicina e con fare cospiratorio mi sussurra:

“Kent sigarette Kent” e m’infila in tasca alcuni pacchetti. Non so più cosa dirgli e quindi taccio lasciandogli credere che ero sodisfatto dello scambio, poi riempito il suo e il mio serbatoio mi avvicino e gli rimetto in tasca le sigarette dicendogli: “Amici, non voglio niente, vai pure a Bucarest”, mi abbraccia commosso e i suoi passeggeri mi mandano baci e ridono felici, anch’io ero soddisfatto di quest’unica buona azione che avevo potuto fare in questo paese chiuso al resto del mondo.

Tra poco più di un’ora varcheremo il confine con l’Ungheria, ma abbiamo ancora un pacco di Leu da spendere, che di certo in nessun altro paese potranno essere cambiati. Mentre viaggiamo sulla strada DN6 incrociamo un mercatino dove anziane signore vendono pizzi e merletti piatti di ceramica fatti e dipinti a mano, ecco dove investire gli ultimi Leu, quindi ci fermiamo e io e il fratello di Rossana ci avviamo a fare gli acquisti; intanto che contrattiamo stoffe lavorate ad uncinetto e piatti dipinti con il blu di Voronet, vediamo una lunga e ordinata coda davanti al nostro furgone e Rossana e Anna che distribuiscono cibo e vestiti, come si trattasse della sussistenza, qualcuno reclama perché a suo vedere ha avuto meno di altri che l’hanno preceduto, mentre una anziana signora s’impadronisce di un filone di pane vecchio e tra gli improperi di chi sta aspettando, si lancia ad attraversare la strada, tra uno stridio di freni, incurante del traffico.

Adesso abbiamo dato tutto, cibo non ne abbiamo più e i vestiti sono ridotti al minimo indispensabile, ma abbiamo raggiunto il confine e non ci resta che adempiere alle pratiche burocratiche per poter ritornare in Ungheria dove di sicuro ci aspetta un piatto di gulasch e un boccale di birra.

Speravo che le procedure per l’uscita fossero più snelle, ma non è stato così, i solerti militari non solo rovistano tra i bagagli e compilano decine di fogli, ma smontano la paratia che divide il motore dall’abitacolo, cercano doppifondi, smontano sedili e i mobili da me costruiti per camperizzarlo. Nel vedere questo scempio:

“Ma che cosa cercate? Cosa volete che portiamo via da un paese che non ha più niente?”

La risposta non tarda ad arrivare: “Bambini”, e subito mi è tornata alla mente quella giovane mamma che a braccia tese mostrava il suo bambino supplicando di portarlo in Italia. Non ho replicato, mi sono avvicinato chiedendo gentilmente che rimettessero tutto in ordine e ho lasciato sul parabrezza dieci marchi e un pacchetto di sigarette ciascuno.

La procedura non era finita, dovevo farmi restituire la cauzione di ottocento marchi che avevo depositato all’entrata, la mia fortuna è stata che ho parlato con il graduato giusto, che già dalla prima sigaretta che gli ho offerto mi ha preso in simpatia, così le sigarette sono diventate interi pacchetti regalati e l’omaggio di un caffè da venti marchi ha smosso le ricerche dei documenti che dimostravano il mio credito.

Durante la ricerca, tra firme e timbri, il graduato esasperato dall’inutile burocrazia in Italiano, a bassa voce, ma facendosi sentire: “Ceaușescumerda!” e dagli altri uffici si è udito il consenso di tutti funzionari. Così ho compreso non sarà il “Rivoluzionario” a cambiare la Romania, ma l’esercito ben armato.

Ormai è buio, e ce l’abbiamo fatta, bagagli e furgone sono in ordine, ci sono stati restituiti i passaporti e ho in tasca la cauzione, anche se non più ottocento marchi, perché sessanta sono stati trattenuti per spese.


Il 22 dicembre 1989, con decreto diIon Iliescu(CFSN), fu istituito il Tribunale Militare Eccezionale, tre giorni dopo Ceaușescu e sua moglieElenafurono giudicati dopo unprocesso sommarioe condannati a morte. La loro esecuzione fu eseguita alcuni minuti dopo la pronuncia della sentenza e rappresentò l'atto finale dellarivoluzione rumena del 1989.