ISLANDA


TRA TERRA, FUOCO E GHIACCIO


 “ Mi raccomando, siate prudenti, non andate nei pericoli”.

  

Nonostante la mia barba bianca, i capelli radi e una prosperosa pancia, la mamma novantenne riesce a intravvedere il ragazzino ormai scomparso dentro questa metamorfosi anagrafica.

Introduzione

E’ Sabato pomeriggio, minaccia temporale, manca un mese alla partenza e questo è il momento giusto per montare il campo base sul prato di fronte a casa.  Un tavolino con le sedie, la tenda a igloo, i materassini gonfiabili con tanto di cuscino e telo a uso veranda, poi si alza il vento e il cielo si fa scuro, ottima prova, in Islanda la situazione sarà peggiore.  

Ho preparato tutto in meno di un’ora, che considerati i tempi previsti è un’eternità; ecco arriva la pioggia, adesso devo smontare e mettere tutto dentro le borse con ordine, allora Rossana s’impietosisce e interviene in mio aiuto.

 Velocità e precisione sono il nostro motto, non fa tempo ad arrivare il temporale, che le attrezzature da campeggio sono riposte in due borse e sistemate sul portapacchi del sidecar.

Mentre il temporale si scatena osserviamo il carico sull’Ural e siamo d’accordo:

 “Non possiamo caricare una montagna di bagagli sul portapacchi posteriore del carrozzino, è necessario distribuire meglio i pesi”.

La decisione è presa, ci attrezziamo con un portapacchi anteriore e aggiungiamo un’altra tanica per la benzina, ma i dubbi ci assalgono:

“Sarà brutta? Tutta quella roba avanti rovinerà l’armonia delle linee del carrozzino e anche l’aerodinamica ne risentirà?”, ma poi:

“Ma no, è un Ural ed è sempre bella”.

  • Il progetto

Siamo sopravvissuti a quarant’anni di matrimonio e per festeggiare la migliore scelta è un grande viaggio in moto.

Il primo pensiero è per l’America, coast to coast, un pellegrinaggio da Chicago a Los Angeles sulla route 66 in sella a una Harley Davidson.

Già m’immaginavo, con occhiali scuri e giubbino di pelle, mentre, smontando da una HD Road King per una sosta al “Bagdad caffè” mi toglievo il casco a stelle strisce, quello di Peter Fonda nel film Easy rider.

Tracciato l’itinerario ero pronto ad acquistare i biglietti per il volo areo e noleggiare la moto, quando, chiacchierando con chi aveva già vissuto l’avventura, ho cominciato a capire che per questo viaggio potevo aspettare i cinquant’anni di matrimonio. A convincermi è stato l’entusiastico racconto di un rispettabile signore, che aveva organizzato il coast to coast in compagnia di tre anziani amici sofferenti di prostata e asma, per non parlare dell’artrite.

Il nuovo progetto nasce in fondo, a destra, nel cassetto dell’armadio del salotto, da dove esce una vecchia guida del Touring club, che racconta di meraviglie selvagge e dei paesaggi primitivi della gelida Islanda.

Negli anni ottanta era solo una fantasticheria, tutto costava troppo, per il traghetto ci volevano quattro stipendi.  

 Ci organizzeremo con la tenda, poi con una dispensa di liofilizzati e scatolette e una riserva di contanti per qualche spesa in più.Capacità di carico e doppia trazione fanno dell’URAL il mezzo giusto per l’Islanda e poi girovagando sul WEB non ho trovato racconti di avventurosi sidecaristi che abbiano attraversato l’Islanda con un veicolo del genere, forse siamo i primi e speriamo che ciò sia buona cosa.

Il solo pensiero d’attraversare la Germania in autostrada a ottanta chilometri l’ora mi fa rizzare i radi capelli, perché lo so che le auto mi supereranno a duecento, mentre i camion mi talloneranno aspettando di sorpassare. Le terre teutoniche le attraverseremo di notte in treno con il sidecar appresso e noi comodi nelle nostre cuccette russando come due quarantennali sposini.

Metà luglio è passato e abbiamo i biglietti per il treno e per il traghetto.

La prima Tappa prevede il tragitto fino a Monaco: quattrocentocinquanta chilometri da farsi nella giornata,  poi alle ventidue e trenta parte il treno, che si fermerà ad Amburgo alle sette del mattino, ancora cinquecento chilometri fino a Hirtshals in Danimarca dove ci attende il traghetto, che dopo tre giorni di navigazione ci sbarcherà a Seydisfjordur in Islanda.

Cinque giorni per raggiungere l’Islanda e venti per visitarla percorrendo piste solitarie e attraversando insidiosi guadi ed è proprio quest’argomento che accende  la discussione con Rossana:

 “Vada per qualche notte in tenda, ma non tutte, poi  mi devi promettere che non finiremo persi in qualche distesa di lava, oppure affondati  in un guado lontano dalla civiltà, perché altrimenti non ti seguo e torno a casa con il primo che passa”.

Faccio “giurin-giurella”,  che seguirò le sue richieste senza trasgressioni  e scuse,  anche se per raggiungere alcune meraviglie locali temo che dovremo sobbalzare e bagnarci un po’.

Molte scatole di tonno, altrettante di carne e di  fagioli, poi minestre e risotti liofilizzati, marmellate, nutella e caffè, senza dimenticare cinque litri di vino rosso e una bottiglia di grappa, il tutto stipato in due scatole di plastica trasparente. Forse è poco, ma di più non ci sta nel bagagliaio dell’URAL adattato a cambusa. 

Manca una settimana alla partenza e abbiamo tutto ciò che serve, potremmo già partire. 

Venerdì cinque agosto. Mi giro sul fianco sinistro, perché così dormo meglio, no forse sul destro, è troppo presto per dormire; poi penso a tutto quello che ho caricato sul sidecar, al contrario vorrei che mi venisse in mente quello che ho dimenticato, allora provo a  contare le pecore, invece  ripeto  l’indirizzo della stazione di Monaco come quei motivetti  da cui non puoi liberarti. Rossana dorme,  era lei quella agitata ed io quello calmo, adesso chiudo le imposte e provo a riposare.  

Suona la sveglia e la luce entra dalla finestra spalancata, ma come mai ? Io l’avevo chiusa.

 Non riesco a svegliarmi, vorrei dormire ancora un’ora, ma non è possibile il caffè è pronto e devo prepararmi.

Dopo la partenza  il tempo dei fatti quotidiani resterà sospeso e ogni impegno rimandato al ritorno come a una nuova vita.

Islanda

La breve notte artica sembra non finire quando la pioggia scaraventata dal vento contro il telo della tenda rompe il silenzio di questa terra ornata da rocce magiche e da improvvisi colori.

Senza rendermene conto è passato un mese,  smonto i bagagli e trovo  cose che credevo perse,  poi mi stendo per riposare, ma appena chiudo gli occhi mi appaiono  le montagne di lava nera, il verde brillante dei licheni e il bianco dei ghiacciai e delle cascate, allora proseguo veloce nel deserto nero verso l’arcobaleno comparso all’improvviso da uno squarcio nel cielo plumbeo.

L’Islanda, grande quanto metà Gran Bretagna, conta solo trecentosessantamila abitanti,    quasi come Bari e quest’anno ha ospitato più di un milione di turisti.

In Islanda tutto costa molto caro ma ci sono diversi modi per vistarla, trascurando il metodo del  viaggiatore milionario, il più comune è quello della settimana tutto compreso con gita nei luoghi più conosciuti e festa di commiato, a ruota segue il metodo con biglietto aereo low cost, auto a noleggio e prenotazioni per la notte negli ostelli. Poi ci sono i più avventurosi  quelli dell’off road con moto da enduro e tenda e le organizzatissime quanto costose  spedizioni artiche con mezzi adatti al fuoristrada estremo;  in contrapposizione c’è chi va a piedi con il solo zaino sulle spalle e aspetta ore lungo strade deserte un passaggio che non arriva, ma  chi mi ha più impressionato sono i ciclisti quando pedalano contro vento, in salita e sotto la pioggia.

Poi c’ eravamo noi con il nostro sidecar stracarico convinti di far parte della categoria degli avventurosi organizzati.

Adesso che ho riposato faccio ordine tra foto, filmati e appunti di viaggio, poi comincia il racconto.

Il primo giorno, 6 agosto 2016

Il trasferimento è la parte meno avventurosa, devo arrivare a Monaco prima  delle otto di sera e capire dove e come caricare il sidecar sul treno.

I quattrocentocinquanta chilometri di autostrada  che ci separano dalla prima meta prevedono circa sette ore di viaggio, potremmo partire con calma, invece alle otto di mattina siamo già sulla strada che porta verso il confine. Alle quattro di pomeriggio siamo davanti alla stazione di Monaco di Baviera, ma non è da qui che si carica il sidecar in treno. Mi guardo attorno per chiedere informazioni,  c’è molta polizia, ma è tutta impegnata ad aiutare i numerosi immigrati  che qui si accampano con coperte e cartoni nell’illusione di una vita migliore.  Riesco ad avere le informazioni, ora so che devo fare il giro del quartiere seguendo l’indicazione “DB AUTOZUG”.

Alle cinque del pomeriggio il sidecar è pronto per salire in treno, ma è ancora presto dovrò aspettare tre ore, però non sono il primo,  altre moto con targa tedesca e una BMW rt targata  Italia attendono di essere caricate.Durante l’attesa conosciamo una coppia italiana che ha in programma la vista dei fiordi norvegesi, così, carte geografiche alla mano, parliamo dell’itinerario e delle zone che anni orsono noi avevamo visitato, poi mangiamo in loro compagnia del pollo al curry nella tavola calda gestita da Indiani che non servono birra o altri alcolici, solo acqua e yogurt. Chiacchierando il tempo passa e il momento di salire in treno arriva veloce. Sono pronto con il motore acceso quando si avvicina un cinese con la divisa delle ferrovie tedesche guarda il biglietto e attacca un cartello con scritto Hamburg, poi con le nocche della mano batte sulle taniche di benzina e dice: “this is not good”,  cerco di spiegargli che sono vuote, ma se ne va senza darmi ascolto, allora ingrano la prima, mi avvio e a nessuno importa più delle mie taniche.   Il vagone è maledettamente basso e stretto, devo procedere tenendo la testa reclinata sul manubrio perché c’è il rischio di dare delle poderose zuccate, per fortuna ho messo il casco.C’è un gran movimento e non riesco a capire se il sidecar viaggerà con me, ma non ho tempo per informarmi, devo attraversare il sottopassaggio e andare in stazione a prendere posto in treno.Sono le dieci e trenta quando chiudiamo le tendine delle cuccette e ci scambiamo la buona notte, poi, distesi sui minuscoli lettini, ascoltiamo lo sferragliare del treno; domattina alle sette saremo ad Amburgo.  

In viaggio verso l’imbarco

Arriviamo ad Amburgo puntali e il sidecar è nel  vagone di coda, le operazioni di scarico si protraggono oltre le otto del mattino, quando finalmente, a testa bassa, scendo dal vagone e in pochi minuti siamo pronti per ripartire. La nave ci aspetta a Hirtshal in Danimarca per il giorno nove agosto alle undici e trenta, per cui abbiamo due giorni per attraversare i cinquecentoquaranta chilometri che ci separano dall’imbarco. Decidiamo di viaggiare con calma e chiediamo al nostro navigatore di condurci alla meta evitando le autostrade, ma il Tom –Tom non è d’accordo, così ci asseconda per un po’e  poi ci obbliga a riprendere l’autostrada. Percorriamo trecentoquarantachilometri prima di fermarci nel campeggio di  Blommehaven nei pressi di Arhus.

 

 

La mattina dell’otto agosto siamo nuovamente in autostrada, dobbiamo percorre solamente duecento chilometri, che però sono  piuttosto faticosi, perché un forte vento da nord ovest frena il nostro volonteroso sidecar, che per lo sforzo tende a destra, così s’innesca una lotta per riuscire a  tirar dritti e quando arriviamo a Hirtshal ho le braccia a pezzi e il vento è più forte che mai, la temperatura è calata di molto e gli improvvisi acquazzoni ci  trovano impreparati.

A Hirtshal c’è un campeggio, un hotel,  un motel, un negozio di souvenir e un museo marino, poi un’immensa zona portuale e una spiaggia a perdita d’occhio dove vento e mare s’incontrano.

Pernottiamo al motel, che non è proprio economico, ma la stanze sono belle e con bagno; approfittiamo della comodità per asciugare le tute da moto e i bagagli, poi, dopo una doccia e un cambio d’abiti (Blue-jeans  e maglietta), andiamo a cena nell’hotel, ordiniamo  entrecôte  di manzo e birra scura, poi nel porgere la carta di credito non batto ciglio. Quando usciamo ci sorprende un acquazzone, ma continuiamo a camminare lentamente, la pioggia oramai è un’abitudine.

E’ il nove d’agosto e in porto ci aspetta la nave della Smyril Line, saranno  tre giorni di navigazione, da prima costeggiando il sud della Norvegia e poi in mare aperto sfiorando le isole Shetland, poi una breve sosta nell’arcipelago delle  FærØer  (Faroe) ed infine l’Islanda.

La mattina dell’undici agosto siamo pronti per il check-in, insieme con noi una trentina di moto tutte da enduro con ruote tappate, dall’altra parte enormi camion fuoristrada e altri mezzi  4WD che esibiscono scritte del tipo: “Artic Adventures Super Truck”. 

Mentre le colonne dei veicoli si avviano all’imbarco e il vento continua ad agitare il mare e ad alzare la sabbia, è ben visibile nei volti dei partecipanti l’eccitazione per l’inizio dell’avventura.

 

E’ il nostro turno, mostro i biglietti, ma l’impiegata mi fa accostare: “Cominciamo male”  penso; resto qualche minuto fermo,  poi  mi convinco che non posso aspettare ancora, allora scendo dalla moto, busso allo sportello e con il mio miglior inglese chiedo: “What the hell is going on?” (Che diavolo sta succedendo?), sorridente e gentile l’impiegata mi spiega che sul mio biglietto c’è scritto che ho pagato per l’automobile, mentre io mi sto imbarcando con una moto e quindi ho diritto a un rimborso. Non lo dico, ma penso: “Davvero scrupolosi e onesti da queste parti”,  quindi capisco che devo rispiegare quanto avevo già chiarito tramite e-mail alla compagnia di navigazione. L’impiegata ascolta poi sempre sorridente dice, che se va bene a me non c’è problema e mi consegna la carta d’imbarco,  poi salutandoci all’unisono diciamo:   “ Potevano scrivere sidecar anziché car”.  Ce l’abbiamo fatta, l’URAL sale sul ponte della nave, Rossana filma l’entrata  ed io seguo le indicazioni degli addetti per parcheggiarmi.

Trovato il mio posto scarico i bagagli che serviranno durante l’attraversata, poi provo a legare il sidecar in modo che resti ben fissato al ponte, ma tra una montagna di cinghie non ne trovo una che vada bene, così dopo mezzora di tentativi decido di fare una serie di nodi auto stringenti, poi guardo il mio lavoro e penso: “Il sidecar è immobilizzato, male che vada  taglierò di un paio di cinghie”. Abbandonato il sidecar al ponte quattro inizia la ricerca della cabina, la numero seimila trentadue al quinto piano, però uscire da qui è un impresa, i grandi mezzi non lasciano spazio per camminare, devo alzare i bagagli sopra la testa e procedere di fianco.

La nostra cabina non ha l’oblò, ma ha il bagno con doccia, due comodi letti, armadio e tavolino, poi un televisore sintonizzato sui programmi danesi e collegato a una telecamera posta sulla prua che mostra l’avanzare della nave.   

L’attraversata  

Appena sistemati i bagagli, una doccia,  qualche minuto di riposo, poi decidiamo di ispezionare la nave. Tre ristoranti, due bar, la sala giochi, un cinema, la sauna, una piccola piscina, la palestra e un negozio dove si vende un po’ di tutto, dai vestiti alle sigarette, dai souvenir alle bottiglie di super alcolici.  La nave si muove e in breve siamo in mare aperto e se ne sente l’effetto quando i corridoi del negozio si alzano e si abbassano mentre noi camminiamo come ubriachi un po’ di qua e un po’ di là,  poi in salita e di colpo in discesa, mentre le bottiglie dei liquori vanno avanti e indietro nella scansia emettendo un tintinnio assordante; è quel che si dice mare grosso.

Prendiamo l’ascensore e saliamo al ponte otto, il più alto, appena  esco allo scoperto il vento mi cattura come volesse portarmi via,  devo aggrapparmi alla battagliola per  guardare il mare che ci viene incontro con  onde bianche di spuma, allora capisco che questo vento che proviene da nord ovest è lo stesso che sentivo all’inizio del viaggio ed  arriva proprio dall’Islanda sempre più forte e freddo.

Tra motociclisti ci si riconosce; birre, chiacchiere e risate, ma anche carte geografiche e progetti per il viaggio, poi scopriamo che alcuni hanno mete simili alle nostre, così decidiamo di affrontare insieme la prima parte del percorso, che ci porterà, attraverso il deserto nero, alla bocca del vulcano Askja.

 

 

Sul ponte otto c’è l’avvistatore di balene un simpatico tedesco, che passa ore a scrutare il mare e ad ogni spruzzo grida: “whale, whale!”  poi  indica  il mare, ma si tratta di falsi allarmi. Il secondo giorno di navigazione, al largo del le isole shetland, ecco apparire  un spruzzo d’acqua e un dorso nero che si avvicina alla nave, è proprio una balena, anzi sono due, scatto più foto che posso, poi mi rendo conto che non ho sentito il grido dell’ avvistatore, allora mi guardo intorno e non c’è,  ha perso l’occasione.

Nel pomeriggio facciamo sosta alle isole Faroe, ma non possiamo scendere così tutti i passeggeri si accalcano a prua per guardare le imponenti scogliere e le case colorate con i tetti coperti d’erba.

Ancora una notte di navigazione e domani arriveremo in Islanda.

 

Siamo in Islanda

Sono le otto del mattino quando il capitano avvisa i passeggeri che arriveremo a Seyðisfjörður con due ore di ritardo a causa di una variazione di rotta dovuta al mare mosso.

Ultima colazione in nave, poi meticolosa preparazione dei bagagli ed è già tutto sul ponte pronto per  essere caricato sul sidecar.  Nel fiordo il mare è calmo e per un istante il cielo si fa azzurro dando risalto al nero e al verde delle montagne e ai tetti colorati delle case.

Siamo in Islanda al parallelo 66 nel circolo polare artico.

 

 

La nave ha un tremito quando inverte i motori per ormeggiare, i passeggeri, bagagli alla mano, si accalcano alla porta del ponte quattro pronti a precipitarsi verso il proprio mezzo, come alla partenza di  Le Mans.

Una manata al pulsante rosso e la porta della stiva si apre,  i bagagli sopra la testa, poi scivolando tra camion e auto raggiungo il sidecar e scopro che i nodi d’ancoraggio non ci sono più,  al loro posto delle tese ed ordinate cinghie, chissà se gli addetti avranno riso o protestato sistemando quell’intreccio.  

I mezzi cominciano a muoversi e i viaggiatori si chiamano a gran voce: “Ci vediamo fuori, al primo distributore” , “Aspettami” .  C’è una gran confusione e non riesco a sentire l’accensione del motore, mi sembra che fatichi: “Cof-cacof”,  Rossana, seduta nel carrozzino, mi guarda con fare interrogativo e in quel momento il sidecar si mette in moto ed inizia il nostro sbarco.

 

 

Una nuvola nera scende a toccare i tetti delle case e comincia a piovere, ci attrezziamo con tute, guanti e ghette, poi arriva la prima piccola difficoltà,  al distributore, si può pagare solo con la carta di credito e bisogna digitare il PIN. Devo togliermi nuovamente la tuta e i guanti, cercare la carta e poi il numero del PIN che non ricordo,  faccio il pieno e riempio anche le taniche, ora sono pronto, ho  cinquecento chilometri di autonomia, ho da mangiare e la tenda per dormire, l’avventura può cominciare.

Di tutto il gruppo di motociclisti arriva solo Danilo con il BMW GS, facciamo il giro del paese, ma del gruppo non c’è traccia. Prima di lasciare Seyðisfjörður  acquisto una dettagliata carta dell’Islanda e chiedo informazioni sulle strade, mi dicono che la situazione delle strade e dei guadi cambia continuamente e che solo sul posto posso avere informazioni precise.

Usciti dal paese la strada comincia a salire e la nebbia ci avvolge, la temperatura è di otto gradi e  cala sensibilmente mentre ci avviciniamo ai nevai, a tratti la nebbia sparisce ed allora appaiono le montagne nere, il verde dei licheni e il bianco della neve. Poi, durante una discesa vertiginosa, l’asfalto finisce, devo scalare marce e frenare, tendo con forza il sidecar che stracarico cerca di ribellarsi; è il primo incontro con l’Islanda, che subito m’incanta per i colori e la rudezza dei sui immensi spazzi. 

La prima città che incontriamo è Egilsstaðir, facciamo una sosta per cambiare i nostri euro in corone islandesi e per consultare le carte poi seguiamo la strada principale numero uno. Dopo pochi chilometri l’asfalto lascia posto a un fondo in ghiaia e sabbia nera, dove incontriamo il primo motociclista in difficoltà,  uno spagnolo solitario finito al bordo strada con la gamba infilata sotto la moto, che invece di ringraziarci per l’aiuto continua a giustificarsi per la caduta e rischia di finire nuovamente a terra partendo.

Ricomincia a piovere a dirotto e dopo pochi chilometri incontriamo una  Gasthaus, parcheggiata di fronte c’è  la moto dei gemelli che dovevano far parte del gruppo, invece se ne stanno comodi e tranquilli davanti a un piatto di zuppa fumante, ed hanno anche prenotato una camera giustificandosi: ”Piove troppo, noi  ci fermiamo qui e domani vedremo”.  Noi proseguiamo e poco dopo abbandoniamo la strada principale per seguire la pista F907, bastano pochi chilometri perché Danilo capisca che con le gomme stradali non può farcela, ci affianca e dice: “Proseguite voi, io sarei solo d’impedimento, faccio fatica tenere la moto su questo fondo sabbioso e sconnesso per cui riprendo la uno e vado direttamente sul lago Mývatn” , così io e Rossana restiamo soli ad affrontare gli altri centodieci chilometri di pista che mancano.

Facciamo pochi chilometri e la strada migliora, ora è uno sterrato di ghiaia nera e il sole rende il panorama  più dolce.

Peccato” penso “Se Danilo fosse arrivato fin qui di certo non avrebbe avuto più problemi”.

Qui il sole tramonta dopo le undici della notte, per cui possiamo ancora viaggiare per arrivare alla nostra meta.

Dopo alcuni chilometri troviamo delle indicazioni, la prima indica un campeggio, l’altra la pista F910 per  l’Askja, Rossana preferirebbe fermarsi, ma io non capisco dov’è il campeggio e neppure mi sforzo per cercarlo, penso che sono le quattro del pomeriggio e mancano meno di cento chilometri alla meta, così anche Rossana cede e cominciano ad inoltrarci nella pista F910.

La strada sale sempre di più e il paesaggio cambia, sparisce ogni traccia del verde per lasciare il posto a pianori desertici, ora grigi, ora neri. Il vento non ha ostacoli e soffia più forte che mai, le nuvole nere corrono basse sulla nostra testa e a tratti scende orizzontale una pioggia gelida e sottile, poi all’improvviso cessa e il vento ci asciuga.  Il Moðrudalur è un luogo ì solitario e brullo e dà un sensazione di smarrimento, ma infonde anche l’eccitazione di avventura. Alcuni miscredenti dicono che l’Apollo 11 non sia mai arrivato sulla luna e che il filmato del 20 luglio 1969 sia stato girato proprio qui, in questo deserto, allora  scendo dall’URAL come dal LEM e sussurro “Un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità”.

   

 

La pista si fa sempre più difficile ed accidentata, migliaia di piccole cunette scuotono il sidecar senza  tregua, poi profonde buche si alternano a pietre, le salite sono molto ripide e sabbiose, la velocità che riusciamo a mantenere è tra i venti ai quaranta chilometri orari. Ad un bivio  due cartelli indicano delle località a noi sconosciute, che non riusciamo a trovare sulla carta geografica, per cui  bussola alla mano cerco di fare il punto di rotta, nel mentre arriva una spedizione di fuoristradisti svizzeri, anche loro in difficoltà, dopo uno scambio di informazioni decidiamo di seguire verso sud-ovest.

 

Prendiamo posto tra la seconda e la terza Land Rover mantenendo la loro velocità, anche se la pista peggiora di chilometro in chilometro. Improvvise e dissestate salite mi costringono a guidare in piedi per evitare impennate, mentre nelle discese devo spostarmi più indietro possibile e frenare con le ruote posteriori; poi arriva il primo guado, il gruppo si ferma e il capo spedizione scende s’infila gli stivali da pescatore e attraversa, è un torrente largo una trentina di metri e l’acqua non arriva al ginocchio, i primi due passano seguendo una curva verso valle e va tutto bene, tocca a noi, inserisco la doppia trazione e senza esitazione attraversiamo.

 

Il fondo della pista si fa sempre più sabbioso e sconnesso e dopo aver attraversato altri cinque guadi incrociamo un gruppo di motociclisti italiani, che a gran voce ci dicono che il prossimo è insuperabile.

 Il morale cala, ma non mi abbatto. Che cosa dovrei fare,  tornare indietro senza neppure andare a controllare di persona?

All’attacco del guado c’è parecchia confusione, l’auto di assistenza della polizia locale sta cercando di far ripartire una Dacia Duster 4WD che si è piantata, nel frattempo arriva un motociclista polacco su un BMW GS. Il gruppo di Land Rover  si ferma e il capo spedizione comincia la sua ricerca del punto più favorevole per l’attraversamento. Questa volta non si tratta di un placido rigagnolo largo una trentina di metri, qui dobbiamo attraversa un fiume largo quasi cento metri, con una forte corrente e una profondità ancora non valutabile. Seguo con attenzione il procedere del capo spedizione, che sta sondando la profondità dell’acqua seguendo una linea curva verso valle, dove i detriti portati dal fiume si ammassano. L’acqua arriva al ginocchio, siamo al limite delle possibilità dell’URAL ,qualche centimetro in più e il filtro dell’aria resterebbe sommerso danneggiando irreparabilmente il motore, ma il peggio arriva verso la fine del guado quando l’acqua supera l’altezza della coscia e la nostra URAL affonderebbe fino alla sella.

Le Land Rover cominciano a muoversi le prime passano sommergendo  metà portiera, l’ultima affonda fino ai vetri, ma tutte ne escono bene, l’enorme snorkel, che arriva fin sopra il tetto, ha fatto il suo dovere.

 Il Polacco se ne va, Rossana non vorrebbe tentare, ma si è già messe le ghette e i pantaloni impermeabili , mentre io ho una gran rabbia per aver commesso il primo errore non attrezzandomi con gli snorkel, vorrei passare ugualmente, cercando un passaggio migliore, però la polizia mi sconsiglia dicendo che loro sono pronti a darmi una mano, ma se spacco il motore  nessuno sarà in grado di ripararlo per cui la mia avventura finirebbe qui, allora a malincuore inverto la rotta, a Rossana torna il sorriso e prova a convincermi che ho fatto bene, e che non avevo altra scelta.

 E’ il primo giorno e l’Islanda mi ha imposto la prima sconfitta e sarà ancora più dura quando scoprirò che la mattina successiva i gemelli sono riusciti a passare, perché l’acqua era più bassa e l’avvallamento era stato riempito di detriti dalla corrente. Avremmo dovuto fermarci anche noi a mangiare un piatto di minestra alla Gasthaus, oppure avrei dovuto dare retta a Rossana e fermarmi al campeggio prima di imboccare la pista F910, ma ormai è fatta e ci stiamo allontanando dall’Askja.  

Sono le sei e trenta quando decidiamo di non rifare lo stesso percorso e di dirigerci verso nord-est seguendo la  F905 che attraversa l’altro versante del Moðrudalur, dobbiamo ancora viaggiare per più di settanta chilometri prima di trovare un campeggio. La pista non è migliore della precedente ma ha solo un guado non troppo profondo per cui siamo sicuri che al massimo in tre ore raggiungeremo la nostra meta.

 Lungo la strada ci fermiamo a riposare, non sono più in collera per la sconfitta e mi siedo ad ascoltare il frastornante silenzio del deserto, poi annuso l’aria, ma non sento l’odore aromatico dei boschi del nord o  di altri deserti che ho attraversato, nell’aria fredda c’è un profumo sottile e puro quasi impercettibile di ghiaccio e pietra.

 

 

 

Superato l’ultimo guado appare un lago e rivedo il verde dei licheni, poi un cancello aperto indica che la F905 è finita e inizia lo sterrato che conduce al piccolo villaggio dove ci fermeremo a campeggiare.

Nell’area campeggio c’è già qualche tenda e incontriamo il gruppo dei motociclisti italiani che avevamo incrociato sulla F910: “Ciao, anche voi avete rinunciato a guadare, avete fatto bene, spaccare qui sarebbe un vero guaio, noi siamo arrivati più di un’ora fa e abbiamo appena finito di sistemare le tende, questo vento è un disastro, buon lavoro”. Apriamo i bagagli e iniziamo a montare la tenda, ma il vento non dà tregua, mentre infiliamo i pali elastici il primo telo sbatte furiosamente, poi quando tutto è finalmente montato e bloccato con i picchetti una raffica di vento distende la tenda fino a terra, allora ricorro a tutti i cordini che si possono attaccare al telo esterno fermandoli a terra con altri picchetti e pietre, poi legandoli al sidecar e a una palizzata, adesso non siamo più in balia del vento, ma arriva  la solita pioggia nebulizzata, così dobbiamo gonfiare i materassini, preparare il nostro giaciglio e sistemare i bagagli all’interno della tenda, quando finiamo sono ormai le dieci di sera e ci rendiamo conto che è dalle sette del mattino che non mangiamo.

 Nella piccola baita all’entrata del campeggio si può cenare e scaldarsi un po’, però i pochi tavoli sono tutti occupati, fortunatamente il gruppo di motociclisti italiani ci invita, ma ormai la cucina è chiusa e la ragazza che gestisce il bar dice di poterci fare solo dei toast.  Vada per due toast e due birre, poi quando arriva il conto lo stupore è grande, perché paghiamo seimila corone islandesi, quasi cinquanta euro. 

Fuori piove e non abbiamo ancora voglia di rintanarci nelle tende, così continuano i racconti dell’avventura che abbiamo appena vissuto fino quasi a mezzanotte, quando comincia a fare buio decidiamo di andare a dormire.

La tenda resite bene al vento e gli interni sono asciutti, per la notte indossiamo le tute in pile, poi ci infiliamo nel sacco a pelo e cerchiamo di addormentarci ascoltando il rumore del vento e della pioggia. Dopo pochi minuti, mi siedo e chiedo a Rossana se sente freddo: “Sì fa freddo il sacco a pelo è come non averlo”. E’ il secondo e più grave errore nella nostra organizzazione; la notte la temperatura scende e sugli altopiani si avvicina allo zero, dovevamo prendere dei sacchi a pelo più caldi, ma ormai non ci resta che rivestirci da motociclisti e dormire con tanto di giaccone, cuffia e sotto casco.

Alle otto della mattina il sole splende, il vento è cessato e la temperatura e di dodici gradi, esco e mi spoglio, è una soddisfazione sentire il sole sulla pelle.

Mentre mi accingo a smontare la tenda arriva una vista inaspettata, un cucciolo di volpe artica ci sta osservando, poi ne arriva un altro e si mettono a scavare, non ci temono e fingono di non vederci.

Dopo una notte di gelo l’Islanda ci regala una mattina magnifica, anche l’arcobaleno compare per qualche istante tra le nuvole che corrono veloci.

Parte seconda


Il Nord e Il Lago di Mývatn


Il viaggio attraverso il Moðrudalur , il guado che ci ha negato il vulcano Askja , la notte ventosa e fredda, poi la mattina di sole, hanno legato il nostro spirito a questa terra dura e magica.
Oggi percorreremo sessanta chilometri di sterrato, poi imboccheremo la strada principale fino al lago di Mývatn, dovremmo arrivare in un paio d’ore, ma in Islanda nulla è scontato, ad ogni passo c’è un nuovo luogo da scoprire ed è inutile prefiggersi una meta perché dobbiamo fermarci a catturare ogni immagine.
Il cielo si è fatto scuro e a tratti scende una pioggia sottile, in lontananza, tra il verde dei licheni, appare una terra gialla e da questa si levano alte colonne di fumi bianchi; le seguiamo con lo sguardo, poi, come attratti irresistibilmente, imbocchiamo la strada che conduce a quello sconosciuto pianeta.
Siamo alle porte dell’inferno, un pungente odore di zolfo ci riempie i polmoni, uomini e donne vagano lentamente come anime che cercano la loro via su questa arida terra e poi spariscono tra nuvole di vapore.

Camminiamo verso la montagna, che sembra vicina, ma passo dopo passo diventa irraggiungibile, poi ci immergiamo nei vapori, come fossero una cura, mentre la terra li soffia verso il cielo con un sibilo acuto.
Ho il viso bagnato, odoro di zolfo, gli stivali sono incrostati di terra gialla e attraverso le suole sento il calore del terreno, sotto i miei piedi c’è un vulcano.


Come si può descrivere ciò che non è terreno ? E’ un immagine sconosciuta, un luogo mistico dove lasciar correre la fantasia per incontrare spiriti irrequieti che raccontano storie sepolte dal tempo.
Un prato verde dove piantare la tenda ci accoglie sul lago di Mývatn Le sue acque tranquille sono un inganno, perché tutt’attorno vulcani attivi scuotono la terra in attesa di scatenare un inferno di lava.
Il cielo è grigio, pioviggina e una nube di moscerini ci dà il tormento, apriamo ugualmente tavolino e sedie e sul fornelletto da campo cuociamo un risotto al tartufo liofilizzato, poi ci versiamo un buon bicchiere di vino rosso e riappare il sole, anche i moscerini se ne vanno. Attendendo la cena faccio due passi lungo la riva del lago circondato da anatre starnazzanti ed appena queste si tuffano nell’acqua limpida e gelida regna il silenzio, anche il vento questa sera tace.
Il risotto è pronto e anche se non è un successo, le anatre gradiscono e si contendono quel po’ che è rimasto. Padella, piatti e cucchiai sporchi in mano, mi avvivo al lavabo posto all’aperto e rialzato rispetto alla zona delle tende, da qui la vista spazia fino all’altra riva del lago dominata dalla sagoma nera del vulcano Krafla, che nel 1984 ha fatto parlare di sé per una imponente colata lavica. Con gli occhi fissi all’orizzonte apro il rubinetto e senza pensarci metto mani e stoviglie nell’acqua, è bollente, lascio cadere piatti e posate e mi ritraggo cercando la cannella dell’acqua fredda, ma non c’è, in breve nell’aria della sera sale una nube di vapore dal pungente odore di zolfo. Il vicino di lavabo sorride come chi c’è già passato, poi chiude il flusso bollente spiegandomi che qui l’acqua sgorga dal sottosuolo e non c’è modo di raffreddarla, si può anche bere, basta imbottigliarla e aspettare che si raffreddi, così se ne va persino l’odore solfureo. Sono un po’ preoccupato per la doccia, non vorrei finire lesso o dedicarmi ad un lungo lavoro di imbottigliamento, scoprirò poi la possibilità di acquistare per tre euro dieci minuti di acqua tiepida.
La notte è fredda, ma non ci coglie impreparati, calzamaglia in lana, calzettoni, cuffia, poi , infilandoci nei sacchi a pelo, ci ripromettiamo di acquistare un paio di caldissime coperte.
Sono passate le sette del mattino quando lo starnazzare delle anatre ci sveglia, poi, mentre il sole riscalda la tenda, togliamo gli indumenti pesanti per goderci il calore in maniche corte, la temperatura oggi è di dodici gradi.
Doccia tiepida, poi con padelle e viveri ci avviamo verso le cucine del campeggio per preparare un’abbondante colazione. Entriamo in una baracca fatta di legno e teli impermeabili dove le parole rimbombano in una babele di linguaggi. Tavoli e fornelli sono occupati, restiamo in piedi a guardare tenendo strette le nostre vivande, quando una ragazza s’infila tra noi e il tavolo reggendo tra le mani un tegame con delle uova, un piatto di pasta e una caraffa piena di caffè bollente, poi inciampa e traballa, ma la fortuna l’assiste, non cade e, con gran fragore, riesce ad appoggiare tutto sul tavolo facendo sobbalzare i commensali, che ridevano ignari del pericolo.
Un gruppo di italiani seduti al tavolo si stringe per farci posto ed anche un fornello si libera, la colazione è pronta, scambiamo uova con biscotti e frutta con prosciutto, poi inizia il racconto delle avventure.
Nel caos di scodelle, piatti e briciole che invade il tavolo apriamo la carta geografica dell’Islanda e segniamo i nostri percorsi scambiandoci consigli sui luoghi da visitare, così al nostro road book si aggiunge il Landmannalaugar, detto anche “le montagne colorate”, i nostri compagni di tavolo ci mettono in guardia sulla pista che dovremo percorrere, loro hanno bucato ben due volte e hanno perso la targa a causa degli scossoni.
Sono le dieci del mattino quando decidiamo di tornare tra i vapori e il ribollire di fanghi delle solfatare di Nàmaskaro, ma in Islanda è facile cambiare idea cosi ci lasciamo sedurre da una pista che ci conduce verso un piccolo e azzurrissimo lago contornato da nubi di caldi vapori, che ci avvolgono nascondendoci.

Riprendiamo a girovagare esplorando il parco nazionale del Jokulsàrgljufur, mentre l’Ural libera dai bagagli corre leggera a balzelloni verso la cascata Dettifoss.

Quando la strada finisce proseguiamo a piedi per meno di un chilometro, poi il rombo dell’acqua che precipita ci annuncia che siamo arrivati. Saliamo e scendiamo ripidi e scivolosi sentieri mentre il fiume Jokulsà cadendo impetuoso da altissime e nere rocce scherza con noi bagnandoci con infinite gocce che poi, al primo raggio di sole, mutano in brevi arcobaleni.

Per non tornare sui nostri passi al primo bivio svoltiamo a destra seguendo un lungo sterrato che attraversa il parco e conduce all‘estremo punto di questa lingua di terra che si spinge nel mar della Groenlandia. Infinite distese di piccoli cespugli circondate da lontani ghiacciai fanno da contorno alla nostra fangosa strada. Continui saliscendi ci portano prima a toccare delle pesanti nuvole nere spazzate dal vento, poi giù nel fitto della vegetazione tra piccoli ruscelli che invadono la carreggiata; infine il mare.

La spuma bianca delle onde s’infrange lungo una spiaggia nera macchiata da verdi ciuffi di licheni, è qui che la placca tettonica del continente americano e quello euroasiatico dividendosi hanno formato una profonda fenditura che eruttando lava ha coperto buona parte della regione. Ora la nostra strada attraversa una distesa di pietra grigia levigata dal vento, mentre il sali e scendi continua tra fango nero e sassi, poi riappare il lago di Mývatn circondato da prati verdi.
Questa sera sul nostro tavolo da campeggio c’è tonno e fagioli, poi dalla cambusa dell’Ural esce un goccio di grappa; sono le undici della notte e il tramonto infuoca il cielo quando ci infiliamo nei sacchi a pelo, poco dopo, insieme al buio, arriva una pioggia insistente sputata da un vento che fa tremare la nostra piccola tenda.
Ancora piove e come la scorsa mattina le anatre selvatiche ci circondano, correndo e sculettando cercano qualche avanzo della cena. Minuto dopo minuto il campeggio si svuota, le colorate tende si trasformano in altrettante borse pronte per continuare il viaggio, dove c’era il nostro accampamento è rimasta solo un po’ d’erba schiacciata.
Quando il sidecar, carico di bagagli rossi e neri, emette dagli scarichi un rassicurante: “tunf – tunf” , indossiamo le tute antipioggia, i guanti e per ultimi i caschi, poi con un filo di gas partiamo ricambiando il saluto di altri motociclisti.
Pochi chilometri e la prima sosta è Dimmuborgir la terra dei Troll, dove nere formazioni laviche hanno assunto forme umane di giganti di pietra, mentre da nord vigila l’artista che ha modellato questa valle da fiaba, il vulcano Hverfiall.

Sotto la pioggia, seduto sul trono di pietra nera mi sento anch’io un po’troll e come racconta l’antica tradizione islandese, questo inverno aiuterò Babbo Natale a consegnare i doni.
Abbiamo percorso una quindicina di chilometri quando compaiono le cascate Godfoss, dove il fiume Skàlfandafijòt precipita in un ampio salto a forma di ferro di cavallo. Cammino in bilico tra le rocce dove l’acqua scende violenta trasformandosi in schiuma bianca come la neve, poi in fondo al baratro si calma, diventando profonda e blu, sembra facile seguirla e con un tuffo guizzare come un pesce alla ricerca degli antichi Dei nordici a cui queste cascate sono dedicate, ma le strapiombanti rocce nere e il gelo delle acque fanno buona guardia riservando ad antiche leggende questo luogo.
Viaggiando verso ovest
Girovagando lentamente e deviando dalla strada maestra per scoprire altri paesaggi , arriviamo ad Akureyri che è già sera, così decidiamo di fermarci qui.
L’unico campeggio della città è contornato da case e sovrastato da un grande albergo, dove abbiamo provato a chiedere una camera, ma quattrocentocinquanta euro per una notte ci è sembrato uno sproposito, in conseguenza, anche se piove, montiamo la tenda.
Pentole e cibo in mano andiamo a preparaci la cena nella cucina del campeggio, dove, come in ogni tendopoli che si rispetti, bolle e frigge strana e odorosa roba da mangiare.
Persone provenienti da lontani paesi s’affollano in questo piccolo spazio intrecciando una ragnatela di fili elettrici, che collegano computer e telefoni cellulari, poi con gli occhi fissi sugli schermi, come in un moderno rito tribale, si estraniano dal mondo .
E’ mattina e il rito di disfare la tenda e rifare i bagagli si svolge sotto un’insistente pioggia, ora tutto è impacchettato e caricato e decidiamo di fare un giro in città, per cercare un negozio dove comprare delle coperte.
Strade dritte che s’intersecano, moderni palazzi e aiuole formano il centro della città, i negozi reclamizzano la moda italiana, ma nessuno vende coperte. Girando a caso ci ritroviamo in periferia quando, in lontananza, vediamo un vecchio con il volto segnato dalle intemperie artiche, mentre avanzando lentamente s’appoggia un po’ al bastone e un po’ alla sua signora. Rossana mi spinge a chiedere informazioni, ma io sono titubante, quest’uomo ha l’aspetto di un rude marinaio e sicuramente non parla altre lingue che l’Islandese, comunque tolgo il casco e gentilmente fermo l’anziana coppia dicendo: “Speak English?” poi chiedo indicazioni per trovare un negozio che venda delle coperte, l’attempato pescatore prende in mano la mappa della città e in un fluente americano mi dà indicazioni, ma vista la mia faccia stupita, segna la strada sulla mappa con il dito. Lo ringrazio e poi chiedo se è Americano, ma lui dice di essere nato e vissuto su quest’isola.
Un paio di semafori, poi di fronte alla chiesa passiamo nel mezzo di un matrimonio e In fondo alla strada compare il centro commerciale. Parcheggiato il sidecar ci scrolliamo l’acqua di dosso e quando le porte a vetri si aprono ci sorprende una vampata di calore e l’incontro con uno specchio mostra inclemente le nostre facce arrossate. Giacche pesanti, stivali da moto e tute antipioggia ci fanno sembrare dei palombari, così imbacuccati siamo fuori posto in mezzo a tutta questa gente vestita estiva. Dopo un’ora usciamo al fresco, sotto la pioggia, con in mano le nuove coperte e dobbiamo comprimere con forza i bagagli per far posto al nuovo acquisto, poi ripartiamo.
La mattina è passata tra le strade e i negozi di Akureyri , ora viaggiamo verso ovest, la meta programmata è l’inizio della pista F35, che attraversa l’Islanda da nord a sud passando per il ghiacciaio Langjokull e il lago Hvítárvatn.
Attraversando l’ Akrahreppur la strada asfaltata s’inerpica lungo montagne nere macchiate di verde, tra ghiacciai e ruscelli dalle acque bollenti. La pioggia continua a scendere e le nuvole ci avvolgono, a volte la nebbia si dirada e allora compaiono gli arieti e i piccoli cavalli islandesi dalle lunghe criniere bionde e gli occhi azzurri.

Quando arriviamo a Varmahlíð abbiamo percorso solo cento chilometri e sono già le cinque di sera, ancora pochi chilometri e avremmo raggiunto la pista F35, ma non è il caso di affrontarla a quest’ora, perché sono necessarie almeno sei ore di viaggio per arrivare al primo punto di sosta.
Una solitaria fattoria espone un cartello che invita a fermarsi, è possibile campeggiare, o pernottare in camerate e in stanze singole. Busso alla porta di una casa bianca con il tetto spiovente da dove esce un’anziana signora, che gentilmente ci mostra le stanze. In Islanda è tradizione togliersi le scarpe prima di entrare in casa, così scalzi saliamo le scale in legno ed entriamo nella camera, poi, sentito il prezzo, che è tra i più bassi d’ Islanda, non abbiamo dubbi e vorremmo appoggiare subito il nostro bagaglio, ma la signora vuole mostrarci anche le altre sistemazioni, allora rinfiliamo gli stivali da moto e la seguiamo, mentre lei, incurante della pioggia, cammina lasciando che i suoi capelli bianchi gli sventolino sulle spalle.
Dopo aver vissuto per giorni in tenda è piacevole fare una doccia calda, poi distendersi su un vero letto per guardare, attraverso questa piccola finestra bianca, un raggio di sole che riaccende i colori dell’Islanda.
Abbiamo tolto gli indumenti da motociclisti e indossato jeans e felpa e ci siamo seduti sulla panchina del campeggio a consultare la carta geografica e le guide turistiche. Domani attraverseremo il cuore dell’Islanda su una pista lunga e avventurosa, ma i dubbi ci assalgono perché in un paio di giorni saremo già a sud dell’isola perdendoci i fiordi dell’ovest, allora Rossana legge delle grandiosi cascate Dynjandi e della forza che sprigiona il mistico ghiacciaio Snaefellsjokull. Sono luoghi remoti di difficile accesso e proprio per questo perfetti, così Il nostro itinerario cambia, questa è la libertà dei viaggiatori senza meta.
Non dobbiamo smontare la tenda e rifare i bagagli, solo una borsa e siamo pronti a ripartire in questa mattina di sole.
Facciamo sosta al primo distributore con tavola calda ed è qui che incontriamo Jeff, che arriva da Liverpool con un furgone dove c’è più ruggine che carrozzeria e il motore rimbomba e sbuffa.
Quando usciamo dal locale Jeff sta osservando il nostro sidecar, allora avvicino le nostre tre ruote al suo reperto storico e fotografiamo questo incontro tra mezzi piuttosto singolari e poi festeggiamo con una lattina di birra islandese.

Ripreso il nostro viaggiare rallento davanti al cartello che indica la deviazione per la pista F35, in quel momento una mandria di cavalli invade la carreggiata e poi al galoppo sparisce seguendo la strada che noi invece vogliamo abbandonare, ormai è deciso, proseguiamo verso ovest.
Abbiamo percorso centoventi chilometri quando, un cartello a forma di foca attrae la nostra attenzione, così svoltiamo a destra e in pochi minuti arriviamo a Hvammstanga.

Il porto è il centro del paese dove ci attende una barca, che porta nel fiordo alla ricerca di una colonia di foche.
Nell’aria aleggia un forte odore di pesce stantio ed è seguendo questo olezzo che troviamo dei mostri marini messi ad essiccare e ciò fa venire in mente che in Islanda si produce lo Hakarl, detto così non fa paura, ma quando capisci che si tratta di carne di squalo putrefatta passa il desiderio di un assaggio, comunque ne acquistiamo una scatola da portare in Italia, così, per ricordo di un orrore da gustare.
Quando la barca esce dal porto per attraversare il fiordo Miðfjörður il vento gelido ci cattura e mentre la prua dirige verso un’impervia scogliera, il capitano, un vero Islandese con barba e baffi biondi , offre cioccolata calda e biscotti.
Le foche, a vedere il loro muso da cane quando sono immerse in acqua, non sembrano poi tanto grandi, ma adagiate sulla riva mostrano il loro imponente corpo adatto ai ghiacci dell’Artico. Bisogna osservare bene, perché, anche se siamo vicini, il loro colore si confonde con i toni della scogliera dove riposano in equilibrio su rocce aguzze; solo una madre alza la testa soffiando e latrando per proteggere i suoi cuccioli.
Giunti a terra, con le mani e il viso gelato, entriamo in un’osteria del porto. L’odore del caffè, il calore di una stufa, il sorriso di una ragazza e i nostri vestiti che gocciolano sul pavimento; quando la natura è severa un riparo diventa casa e non vorresti più andartene. Ci sediamo tra vecchi e scuri mobili a sorseggiare caffè e cioccolata , vicino a noi una donna raccoglie i giochi abbandonati da un bambino, ma per noi è già ora di ripartire.
Uscendo dal paese seguiamo la strada che costeggia la fabbrica del pesce, poco prima di riprendere la via principale incontriamo una laboratorio dove la lana islandese si trasforma in caldi maglioni. “Possiamo curiosare” chiedo alla giovane proprietaria che gentile ci aiuta a rovistare tra i maglioni esposti spiegando la qualità dei tessuti, poi apre la porta del laboratorio e ci accompagna tra i telai e le macchine per la tessitura, infine ritaglia due piccoli pezzi di lana raffiguranti il Puffin per farne omaggio. Ora, che conosciamo il suo lavoro e la sua gentilezza, vogliamo portare a casa questi maglioni per tenere lontano il gelo dell’inverno.
“Tunf, tunf, tunf” il sidecar ha ripreso a trasportare il suo carico verso i fiordi dell’ovest.
Il nostro percorso sale verso un alto pianoro, l’aria si fa più pungente e davanti a noi si apre un infinito orizzonte dipinto da licheni verdi e macchiato di bianco dai lontani ghiacciai. Lungo i fossi tremano al vento dei piccoli pennacchi dai lunghi capelli bianchi, che potresti confondere con i vecchi gnomi guardiani del Laxàrdalur.



Un bivacco Rosso trattenuto dai cavi d’acciaio spicca tra le rocce, è un riparo per i viandanti sorpresi dalle intemperie, al suo interno ci sono quattro brandine, un po’ di cibo, un telefono e un libro su cui resterà scritto: “Rossana e Andrea sono stati qui”.
Ora la strada scende ripida verso il mare per raggiungere Budardalur e poi ancora su fino al monte Bessatunga per poi ridiscendere costeggiando quei lembi di terra che si spingono verso il Breidafjordur .
Prima di imboccare lo sterrato tracciamo il percorso sulla carta geografica; la grande penisola, che attraverseremo, sembra a una mano aperta sull’oceano, da qui in poi la strada seguirà lentamente i fiordi senza incontrare traccia dell’uomo.
E’ sera inoltrata quando ci fermiamo a Flokalundur, l’unico hotel-rifugio e punto di rifornimento di carburante della zona, poi un cartello indica che per proseguire è necessario un mezzo fuoristrada.
Le stanze sono costose e comunque già tutte occupate, per cui montiamo la tenda e prepariamo il nostro giaciglio, poi con un occhio ai prezzi andiamo a mangiare fish and chips.
Questa notte la combinazione tra coperte e sacchi a pelo ha funzionato, ci siamo svegliati più affamati che infreddoliti. Durante la notte sono comparse altre tende e quando siamo in partenza da queste esce il primo campeggiatore in jeans, giacca a vento e scarpe slacciate, ha la faccia di chi non ha dormito e neppure s’è ancora svegliato, poi escono due ragazze, che, lentamente e di malavoglia, iniziano a riordinare e smontare il campo.
Imbocchiamo la strada numero sessanta e l’asfalto lascia il posto a uno sterrato, che da prima è scorrevole, ma poi, avvicinandoci al ghiacciaio le salite si fanno più impegnative e il fondo è sempre più sconnesso.
Decine di torrenti scendono impetuosi tra il verde dei licheni, alle volte attraversano la strada allagandola per poi precipitare in profondi Canyon formando cascate.

Il sole illumina questo fiabesco panorama quando una pesante nuvola nera scende dal ghiacciaio, in un attimo il cielo si fa scuro e la pioggia ci bagna, poi dalla nube filtra un raggio di sole, che, tra cielo e terra, accende l’arcobaleno.

Abbiamo raggiunto la zona più alta del Ísafjarðarbær ed ora la strada scende verso il mare, in lontananza si scorge l’imponente cascata Dynjandi, che, come una bianca ferita, taglia la roccia nera, tramutandosi tra i licheni in un impetuoso torrente, che poi il mare ferma.
Piove a dirotto e mentre il sole illumina la scogliera lasciamo il sidecar per salire a piedi verso quel spumeggiante salto d’acqua.

Acqua precipita con frastuono dalla montagna, altra scende dal cielo, siamo bagnati fradici e gli stivali scivolano lungo la ripida salita che conduce alla cima del monte.


Da quassù il sidecar è un puntino nel verde, passo su passo scendiamo discutendo se sia meglio montare la tenda qui oppure ripartire. La strada per tornare a Flokalundur è lunga e bagnata e comunque dovremmo accamparci sotto la pioggia, ad aiutarci a decidere è l’entusiasmo di un giovane Olandese, che, mentre svuota la sua tenda dall’acqua con un pentolino, garantisce una notte tranquilla, senza nuvole e forse una aurora boreale e per domani il sole. Rossana non ci crede: ”Questa cascata, questo ghiacciaio e il mare chiamano le nuvole, qui piove sempre !”, però la pioggia per un attimo si è fermata e io ho scaricato le borse, poi ho montato la tenda e aperto il telo bianco per costruire una capanna e mettere al riparo il resto dei bagagli.
Terminato di montare il campo base mi spoglio e metto i vestiti bagnati al riparo nella capanna, poi resto a piedi nudi avvolto nell’asciugamano ad osservare l’ipnotico scendere della cascata quando il rombo dei motori annuncia l’arrivo di un gruppo di motociclisti. Sono gli Italiani che abbiamo incontrato nel Moðrudalur, saluti, strette di mano e fotografie di gruppo, poi mi rendo conto che resterà per sempre impressa l’immagine di un sidecarista sessantenne, che s’aggirava tra queste lande islandesi, fredde e piovose, con un asciugamano sui fianchi e l’altro sulle spalle. Non si fermano qui, devono ancora percorrere molta strada e in fretta, perché la loro avventura sta volgendo al termine.
Le sorprese non sono finite, arriva anche Jeff con il suo furgone ruggine, lui ha tutto il tempo che vuole, così si accampa vicino a noi.


Jeff ed io ci sediamo sulla panca e sul tavolo c’è il vino rosso che ho portato dall’Italia, piove a dirotto, ma da qui non ci muoviamo e con una mano sul bicchiere, per impedire all’acqua di entrare, ascolto Jeff che mi parla in Inglese come anch’io fossi di Liverpool.
Rossana è già in tenda, il vino è finito e il sole tramonta, è il momento di andare a dormire sperando che le previsioni dell’Olandese s’avverino. E’ notte fonda quando mi giro nel sacco a pelo e cercando di coprirmi meglio scopro che la coperta è bagnata, guardo fuori e vedo che il prato si sta allagando e, che l’Olandese ha spostato la sua tenda e al suo posto ora c’è un piccolo lago, è inutile lottare, in fin dei conti meglio di così non possiamo sistemarci.
Riavvolto nella parte asciutta della coperta cerco di addormentarmi, ma vento e pioggia battono forte e il rumore della cascata sembra un ruggito rabbioso troppo vicino alla nostra piccola tenda, anche il mare scuote le sue onde come volesse raggiungerci.
Acqua, acqua ovunque, siamo come naufraghi in terra ferma.
Il sole sorge in fondo al fiordo, ma il ghiacciaio continua a chiamare nubi nere, che dalla cima del monte scendono minacciose verso il mare, Jeff è già partito mentre l’Olandese, con la macchina fotografica sul cavalletto, aspetta il sole.
E’ ora di ripartire e quando ci infiliamo i vestiti da moto ancora umidi un brivido freddo ci scuote, poi, smontando il campo ci riscaldiamo. Guardandomi attorno per controllare di non aver dimenticato qualcosa, scorgo una piccola tenda e una bicicletta arrivate durante la notte, è una ragazza che da sola percorre il periplo dell’Islanda, L’Olandese dice di averla intravista, tra la nebbia e il pantano, pedalare in salita senza arrendersi.
Oggi sulla strada 60Vestjarðavegur c’è più fango che pioggia dal cielo, ma poi un vento freddo asciuga le nostre tute e riappare il sole, così il nostro sguardo può spaziare attraverso il mare fino all’orizzonte, mentre dalla spiaggia stormi di cigni selvatici s’alzano in volo descrivendo ampi cerchi nell’aria.


Arriviamo a Bùðardalur affamati e un insegna: “Fish & Chips” non può sfuggirci, cerchiamo di ripulirci un po’ prima di entrare, poi, con la soddisfazione di chi è stanco, mi siedo al tavolo e apro gli stivali.
Sazi e riscaldati dobbiamo decidere se proseguire verso il parco di Snæfellsjökuul, oppure fermarci prima. La pista, che conduce al ghiacciaio sale oltre i mille metri, è piuttosto faticosa e da qui in poi non incontreremo punti dove bivaccare, solo rocce e ghiaccio, per cui, anche se è presto, scegliamo di fermarci nel campeggio di questo paese per approfittare del sole e del vento e asciugare tenda e bagagli.
Lontano da occhi indiscreti al riparo di una siepe prendiamo possesso di un ampio territorio e stendiamo teli, coperte, sacchi a pelo e vestiti, poi il vento teso ci aiuta ad asciugare.

Adesso che tutto è in ordine decido di avvicinare il sidecar, perché nel bagagliaio c’è la nostra dispensa, ma quando giro la chiave tutto tace: “Non facciamoci prendere dal panico” penso “ quando fa così è una sciocchezza”, infatti è bruciato il fusibile, ma appena lo sostituisco il difetto si ripropone, lo sostituisco nuovamente e mi accorgo che i fili delle frecce sono in cortocircuito e anche questo fusibile si brucia, ora non ne ho più. In questo paesino c’è solo un negozio ed ha tutta l’aria di essere un alimentari, ma non si sa mai, continuo a sperare. Mostro il fusibile bruciato al commesso e chiedo se ne ha di uguali, lo guarda con attenzione, poi mi fa segno di seguirlo attraverso un labirinto di scansie ricolme di ogni tipo di merce e apre un cassettone pieno di fusibili.
Sistemati i fili e le lampade delle frecce, con Scotch e colla a presa rapida, tutto torna a funzionare perfettamente.
Verso le otto di sera il campeggio si riempie, dall’altra parte della siepe arriva un gruppo di motociclisti tedeschi più infangati di noi, armeggiano sulle moto e dopo un panino s’infilano in tenda con tanto di stivali e tute. Questa notte il tramonto è in anticipo, sono le dieci quando il sole incendia il cielo, mentre Rossana ed io comodamente seduti sorseggiamo l’ultimo goccio di grappa.


Il forte vento ha scacciato le nuvole e questa mattina il sole splende, l’aria fredda, una doccia calda e un abbondante colazione ci danno l’energia per ricominciare il viaggio verso il Snæfellsjökuul.
Nonostante un buon fondo stradale percorriamo poco più di cento chilometri in due ore , così ci fermiamo nell’ unico locale dell’ultimo abitato, per chiedere informazioni sulle condizioni della strada. Sembra una pasticceria frequentata da gente del posto, ma c’è anche una biblioteca, un piccolo museo della pesca e dell’artigianato locale, poi un ufficio informazioni dove apprendiamo che per arrivare dovremmo seguire una pista lunga una settantina di chilometri percorribile solo con mezzi fuoristrada, ma fortunatamente non ci sono guadi impegnativi.


Pochi minuti di strada asfaltata, poi il solito cartello: “ gravel road” immette su una pista deserta, che sale verso il cielo, tra montagne, torrenti e verdi licheni.
Dopo più di due ore di salti e salite su fondo sabbioso, esclamando: “dai, dai che ce la facciamo”, in lontananza vediamo il grande ghiacciaio da dove il Professor Lindebrock , protagonista del romanzo: "Viaggio al centro della terra", scritto da Jules Verne, parte per la sua straordinaria avventura scalando il ghiacciaio e poi calandosi nella bocca del vulcano.


Un’Ultima salita e possiamo toccare la neve, il ghiacciaio è un luogo mistico di cui le moderne leggende raccontano di basi aliene, mentre gli esoterici ritengono che questo sia il luogo di convergenza delle energie universali. Sarà suggestione, ma l’URAL è più forte di sempre, Rossana non ha più paura di questa pista disastrata, io mi sento più felice e riposato e tutti e due restiamo immobili con lo sguardo perso verso la cima del ghiacciaio per assorbire l’energia dell’universo.


Forse questo luogo è uscito dalla fantasia di un racconto e io sto sognando, allora non penso più a niente e nel sogno il mio spirito raggiunge luoghi dove respirare una vita leggera come l’aria.
Il nostro stato contemplativo deve finire, dobbiamo attraversare il parco dello Snæfellsjökull verso Arnarstapi. La pista che scende da questo versante ha un fondo migliore, ma è molto ripida e mette a dura prova la stabilità del nostro stracarico sidecar, che rinvigorito dall’influsso dell’energia universale, sbanda e s’intraversa, saltellando leggero e veloce, mentre i suoi passeggeri si godono l’avventura.

Arriviamo a Borgarnes che manca poco al tramonto, il camping è sulla strada in un terreno piuttosto sassoso più adatto ai camper che non alla tenda, per cui facciamo un giro nel centro del paese per cercare alloggio e con fortuna troviamo all’ostello una stanza libera, naturalmente l’ultima ed anche la più costosa.
Scarichiamo l’indispensabile per preparaci la cena nella cucina dell’ostello, per lavarci e dormire comodi. Domani arriveremo a Reykjavík in tempo per vedere la maratona internazionale in occasione della festa dell’anniversario delle fondazione della città, che si protrarrà per tutta la notte con fuochi d’artificio, canti e danze.
Fine seconda parte

Parte terza


Reykjavík

18 agosto 2016

 

A centocinquantaquattro miglia nautiche dalla Groenlandia c’è Reykjavik, la capitale d’Europa più fredda e lontana.

La stretta strada ai piedi del monte Esjan  all’improvviso si trasforma aprendosi al traffico della capitale, poi segue il mare accogliendo i viaggiatori con il monumento in acciaio: “Sun Voyager”, dedicato al Drakkar vikingo che volge la prua al tramonto del sole.

Secondo semaforo a sinistra, questo scrive la mappa della città per raggiungere la città vecchia, ma l’accesso è chiuso da transenne, perché la maratona è già cominciata. Seguiamo una strada a caso che ci conduce fino alla moderna chiesa luterana di: “Hallgrímskirkja”, che ricorda un’astronave pronta al decollo, davanti ad essa la statua di Leifur Eiríksson figlio di Erik il Rosso, il primo Vichingo che sbarcò in terra islandese.

Scendiamo verso il porto cercando di evitare il percorso della maratona, ma poi ci ritroviamo nel mezzo della competizione, così approfittiamo per incitare i concorrenti stravolti dalla fatica e appena possibile attraversiamo la strada ed entriamo nel porto vecchio. Parcheggiato il sidecar davanti all’antica taverna il “Sea Baron”  chiediamo informazioni per raggiungere il camping. Dobbiamo percorre quattro chilometri costeggiando il mare e poi deviare verso la zona chiamata: “Laugàras”, mentre dall’altra parte del fiordo il monte Essa, dimora di Dei Vichinghi e Troll, osserva con benevolenza lo svolgersi dei festeggiamenti.

Centinaia di piccole tende riempio il campeggio e i sacchi a pelo stesi ad asciugare sbattono nel vento; all’entrata dei grandi cesti raccolgono attrezzature da camping abbandonate, mentre chi va via lascia sulle mensole della cucina stoviglie e alimenti per chi resta. Sotto un gazebo una griglia a carbone diffonde l’odore della carne cotta, è ora di pranzo e due ragazzi dalle folte barbe bionde improvvisano un concerto per mandola tenore e chitarra, che fa ballare a piedi nudi una ragazza giapponese.

Il nostro sidecar si muove lentamente alla ricerca di uno spazio tra le tende e in un attimo la nostra dimora è pronta, poi restiamo seduti ad osservare la vita di questo affollato campeggio colmo di vita e di giovane energia.

In città c’è grande movimento, la maratona è finita e la festa continua lungo il viale  Skólavörðustígur, i negozianti offrono un bicchiere di vino a chi entra a curiosare e in ogni bar e trattoria si ascolta musica. Note rock e folk  si mescolano alle voci dei passanti, quando mi giunge all’orecchio un perfetto assolo di chitarra blues, allora trascino Rossana tra la calca di una locanda dove si servono enormi panini con wurstel  che sgocciolano senape sugli abiti dei fans mentre ballano agitando pinte di birra.

Abbandonato il concerto torniamo a passeggiare tra il via vai della festa, ma quel blues non riesco a toglierlo dalla testa, così entro in un negozio di dischi dove la musica islandese mi aspettava e tra queste note mi accompagna il venditore facendomi ascoltare nuove band che tra terra, fuoco e ghiaccio mescolano le sonorità del Rock con altre nordiche ed eteree, evocatrici di grandi spazzi, dove solitudine, vento e gelo sono le muse ispiratrici.

Passeggiamo tra palazzi grigi diventati la tela dei Writers, dove i murales ravvivano la città con lo stile tipico della Street art, poi lo sguardo si posa sui grafiti di Guido Van Helen, che dipinge volti che sembrano voler parlare.

In uno stretto vicolo, tra i tavoli di una birreria all’aperto, un coro di eleganti signori con cilindro e marsina intona un canto tradizionale, il direttore coordina le voci con le mani incrociate sul fondo schiena saltellando ora su una gamba ora sull’altra, alternando la danza con rimproveri ai cantanti, che fanno ridere ed applaudire il pubblico.

 Le locande espongono menu tradizionali dai nomi e prezzi incomprensibili. Scendiamo i gradini di una scura taverna dove è rimasto libero solo un piccolo tavolino sul quale brilla una candela, perfetto per noi, poi ordiniamo un piatto tipico e della birra. Il cameriere ci porta dell’acqua di fonte in una bottiglia dall’aspetto antico e poco dopo arriva la nostra portata, una succulenta bistecca guarnita da patate e verdure, ma non si tratta di manzo o di qualche altro mammifero terrestre, è di balena! Inutile piangere lacrime di coccodrillo, è squisita, ancora migliore del più prelibato filetto di chianina. In Islanda, nonostante la battaglia di Greenpeace, la caccia alle balene è permessa e per quanto io possa aver visto, nel mare d’Islanda nuotano ancora centinaia di balene.

 

E’ mezzanotte quando ci infiliamo nei sacchi a pelo, mentre il cielo s’illumina di fuochi d’artificio che chiudono il giorno del compleanno di Reykjavik.

Sporgo la testa fuori dalla tenda, come una tartaruga dal suo guscio, in questa mattina piovigginosa.

 Un gruppo di ragazzi, zaini sulle spalle, si avvia all’aeroporto. La festa è finita e tutti tornano a casa, ma noi no, oggi visiteremo la penisola di Reykjavik, la prima tappa sarà la Laguna blu e poi si vedrà.  

Attraversiamo la città vuota e sonnacchiosa fino al faro, c’è solo un cane che fa i bisogni, mentre il suo padrone, in tenuta da footing, aspetta guardando il mare grigio e piatto. Attraversiamo un quartiere residenziale fatto di villette costruite con panelli isolanti e grandi vetrate che lasciano intravedere la vita familiare, che questa mattina si svolge pigra.

La tranquillità di questo pulito quartiere  mi fa venire in mente le parole del primo ministro islandese Sigmundur Gunnlaugsson: “Sono sicuro che se fossimo rimasti nell’Unione Europea non saremmo usciti così in fretta dalla crisi” era il duemilaotto quando l’Islanda fu travolta da una grave crisi bancaria, che deprezzo la sua moneta di oltre il cinquanta per cento, di fronte allo spettro della bancarotta gli economisti spinsero il governo ad entrare nella UE e adottare l’Euro quale unico antidoto  per fermare il crollo dell’economia del paese.            

I negoziati con Buxelles seguirono un percorso semplice e veloce, ma presto gli Islandesi si accorsero che le misure Draconiane imposte dalla UE stavano uccidendo il reddito e l’autonomia del paese, così nel duemilatredici cambia il governo e l’Islanda esce dalla Comunità Europea; poi da la caccia ai banchieri e ai politici disonesti e alleggerisce tasse e burocrazia dando una forte impulso all’economia.

 “Meglio da soli” dice il primo ministro “Se fossimo rimasti in Europa avremmo dovuto adottare le stesse drammatiche misure d’Irlanda e Grecia, con conseguenze catastrofiche per la nostra economia e il nostro paese”.  Oggi l’Islanda è un paese ricco con un’economia in crescita del tre e mezzo per cento.

Persi in un intrico di svincoli stradali chiediamo indicazioni ad una ragazza, mentre incurante della pioggia tiene per mano un bambino che con il sorriso illumina questa giornata uggiosa: “Seguite le indicazioni per Vogar, poi per Grindavik”. Ho il casco aperto e sottili gocce di pioggia mi penetrano negli occhi, quando mi volto asciugandomi il viso mamma e figlio ci salutano agitando le mani.

La città finisce e la nera roccia lavica coperta di licheni bianchi prende il posto dei grigi palazzi e delle colorate villette prefabbricate. In lontananza vediamo levarsi alti vapori da ciminiere che sembrano appartenere ad una grande industria, questa è la laguna blu! Nel parcheggio un addetto in divisa indica alle auto dove parcheggiare, mentre le corriere sanno già dove andare.

 Un stretto sentiero scavato nella lava conduce alla laguna, il biglietto non serve a chi vuol passeggiare sulle rive di questo piccolo lago azzurro come il cielo in primavera.

Superate le porte a vetri restiamo imprigionati tra ordinate code di bagnati in accappatoio bianco e ciabatte di spugna, che aspettano il loro turno per immergersi in queste miracolose acque. Non è un posto adatto a due motociclisti vestiti con tute antipioggia e stivali infangati, per cui svicoliamo tra le scansie di un negozio di souvenir per turisti e ritorniamo a bagnarci sotto questa gelida e sottile pioggia che, essendoci ormai amica, allontana dal sentiero l’orda dei bagnanti affascinati dal richiamo dei caldi trattamenti. Poi, all’uscita, gruppi di risanati turisti spalancano variopinti parapioggia e corrono verso le corriere che, come mastodonti, attendono pazienti.

Usciamo dal parcheggio di questa rinomata località, mentre un drone ci sorvola riprendendo il nostro strano mezzo a tre ruote che si avvia alla ricerca di luoghi remoti dove improbabili forme e colori liberano emozioni e fantasie.

 Non dobbiamo aspettare molto perché l’asfalto sparisca sotto le ruote e uno stretto sentiero ci porti tra gli scogli dove, sotto gli occhi severi degli arieti al pascolo, giacciono i resti del relitto di un peschereccio scaraventato a terra dalla tempesta. Una lapide racconta di quella notte di burrasca e delle luci, che la gente accendeva per dirigere la barca ormai senza governo, ma il mare non ha cuore e ha sepolto i marinai nei suoi fondali liberandosi di quel guscio di ferro e legno che sembrava proteggerli.

Il sentiero segue la costa salendo verso un vecchio faro dipinto di rosso, da qui si domina il mare e guardando ancora più in la si può arrivare in Groenlandia. Scavalcato il promontorio scendiamo tra prati e pietre dove le pecore dal muso nero pascolano indifferenti al nostro passaggio.

Sulla ripida scogliera nera di Krysuvikuberg ,che a guardarla da vertigine, ci distendiamo tra licheni ed erica ad osservare  il volo delle Sule che, come frecce in picchiata, affondano in mare per poi riemergere con la preda stretta nel becco.

Attraversiamo il ponte che collega la placa del continente nord americano con quella europea, poi imbocchiamo una stretta pista che conduce al villaggio di pescatori di Basedar distrutto da un’onda anomala nel 1799. Le ruote del side affondano e rimbalzano tra le pietre nascoste dalla sottile sabbia nera, poi una ripida salita ci costringe a spingere e quando le gomme fanno presa saliamo al volo mentre alle nostre spalle s’alza una cascata di cenere nera, subito dopo affrontiamo l’ultima ripida discesa fino al bagnasciuga.

Del villaggio non c’è traccia, solo sabbia come cenere, alghe e pietre, ma nel silenzio rotto dalla risacca, chiudendo gli occhi, si può sentire il canto delle balene e poi vederle librarsi sul mare e, come in una favola, è tutto vero.

Dopo salti e sbandante, che sollevano ancora nuvole di cenere, riprendiamo il nostro viaggio di ritorno verso Reykjavik sotto una fitta pioggia.

Questa sera il viale Skólavörðustígur è aperto al traffico, così parcheggiamo il sidecar davanti alla taverna che espone il cartello: “The best soup in Reykjavik”, non distante c’è la moto dei gemelli di Ravenna coperta di fango, ma di loro non c’è traccia. Togliamo le tute gocciolanti, poi ci sediamo nell’unico tavolo rimasto libero e subito arriva la gulasch soup bollente versata in un piatto fatto di buon pane scavato nella mollica.

La stufa ci scalda e la zuppa rinfranca lo spirito e lo stomaco, mentre, attraverso la finestra appannata, osservo il nostro sidecar come fosse l’immagine d’antiche avventure.

Anche questa notte, mentre dormiamo avvolti tra coperte e sacchi a pelo, la nostra piccola tenda verde ci ripara da vento e pioggia, domani si va a vedere il geyser, simbolo dell’Islanda

Fine della terza parte

Parte quarta

Il Sud

Il parco nazionale di Þingvellir

 

Pochi chilometri da Reykjavik sulle rive del lago Thingvallavath incontriamo il parco nazionale più amato dagli Islandesi, è in questo luogo che nel 930 d.C. è stato istituito il primo parlamento del mondo. Qui si riunivano una volta all’anno i capi delle tribù islandesi per dirimere le dispute e scrivere sulla pietra a caratteri runici le leggi che regolavano la convivenza, per poi declamarle alla popolazione.

Percorrendo il sentiero, che attraversa il parco, si passeggia sospesi tra due continenti lungo la dorsale medioatlantica che divide la zolla tettonica Americana da quella Europea.

Il grande lago mantiene un clima più temperato e riparato dai gelidi venti artici, favorendo la crescita  di una fitta vegetazione  formata da arbusti e pini silvestri, questi ultimi  piantati per rimboscare il territorio islandese che, dominato da tundre, scarseggia di legname. 

  

Per me e Rossana, abituati ai boschi e laghi montani delle nostra terra, questa zona, per quanto bella, non ci ha dato l’emozione dei luoghi solitari dai paesaggi extraterrestri sferzati dal vento, dove il silenzio è così forte da stordire, o come l’improvviso respiro d’inferno, che, tra i vapori, s’alza da una crepa della terra, o le grandi cascate contornate da arcobaleni, casa del piccolo popolo.

Una breve sosta in bilico tra America e Europa per ripartire verso il simbolo dell’Islanda.

Il geyser  

Una struttura termale dove si vendono anche souvenir, ed un self service, qui parcheggiamo il sidecar accanto ad una moto noleggiata da un giapponese, che ci saluta con un inchino, poi ci avviamo a piedi seguendo le indicazioni.

Un cartello consiglia di non bagnarsi nelle sorgive d’acqua perché la loro temperatura è di cento gradi; eccolo è laggiù, in fondo al sentiero, dove un capannello di turisti attende l’eruzione d’acqua e vapore.

Ci mettiamo in prima fila, mentre un gorgoglio annuncia un prossimo getto, poi appare una bolla azzurra e trasparente e in un attimo esplode in una colonna d’acqua alta fino al cielo, che ripiomba sulle teste dei turisti come una tiepida pioggia, tutti fuggono, c’è chi ride e chi grida. Anch’io fuggo, quando la mia attenzione si ferma su una coppia di anziani giapponesi, che con un semplice gesto aprono l’ombrello e sorridono, allora alzo il viso verso il cielo e lascio che queste grosse gocce d’acqua, provenienti dalle viscere della terra, inzuppino la mia barba. 

Nella valle di Haukadalur, Geyser è il suo nome, che in Islandese significa: “emettere a fiotti” e da migliaia d’anni ripete il suo scherzo senza stancarsi.

 

Sulla mia giacca ed anche sulla barba si asciugano le gocce del geyser mentre il nostro sidecar ha ripreso a viaggiare verso le cascate Gullfoss.

Gullfoss.

Lasciamo sidecar e bagagli davanti al sentiero, un chilometro da farsi a piedi e già si sente il rombo delle cascate, mentre oltre il colle si alza una nube di gocce nebulizzate, che illuminate dal sole nascondono il cielo con l’arcobaleno, ; è il fiume Hvít, che precipita in un profondo canyon formando quelle che, si dicie, siano le più belle cascate al mondo.

Scendiamo lungo una scalinata, ripida e scivolosa. Davanti a noi una guida descrive ad un gruppo italiano la flora della zona, mentre non posso fare a meno di ascoltare due turisti, che parlano ad alta voce di viaggi in Africa a cui hanno dovuto rinunciare per paura del terrorismo: “L’Islanda per essere bella è bella, ma piove sempre e fa freddo e poi quanto dobbiamo ancora camminare? Con quello che abbiamo pagato!”;

“Hai ragione adesso ci fermiamo qui e fumiamo una sigaretta”.

Sono loro, i turisti della settimana tutto compreso e festa d’addio, quelli che vogliono mangiare l’hàkaral e poi brindare con l’Havid, ma il cuoco dell’albergo è Italiano e allora meglio una spaghettata, rigorosamente cotta in purissima acqua islandese.

Osservando il sentiero, che scende ripido verso la cascata, vedo una (un’) interminabile fila di esseri umani, che ricorda il traffico delle formiche lungo il muro di casa. Seguiamo la coda procedendo lentamente sulla destra dello scivoloso sentiero, mentre ogni voce è cancellata dal rombo delle cascate.

“Giù le mani dalle cascate o mi butto!”. Così gridò una donna a chi voleva rinchiudere il paradiso tra il cemento di una diga, poi in molti andarono a piedi fino a Reykyavik per difendere questo spettacolo naturale, così la donna non dovette gettarsi tra i gorghi della cascata, che continua a scorrere

impetuosa per tutti noi.

Al ritorno ci aspetta il nostro sidecar contornato da un capannello di gente, che fotografa e commenta; affannati e sudati, sorridiamo distintamente, infiliamo guanti e casco, poi il “clock” del cambio annuncia la nostra partenza.

E’ sera, abbandoniamo il circolo d’oro alla ricerca di un campeggio.

Nei pressi di Hella, una bionda islandese ci consegna il biglietto per piantare la tenda e il gettone per la doccia, poi ci avvisa che quella sera stessa con dieci euro  potevamo abbuffarci al pizza party.

Le giornate si stanno accorciando, sono le dieci di sera quando il cielo tinge di rosso le nuvole che, spinte da un vento gelido, avanzano minacciose, è l’ora giusta per coricarsi.

Tolti e ammucchiati gli indumenti motociclistici, indosso la calzamaglia in pile e la cuffia di lana, poi Intreccio il sacco a pelo con la coperta e mi ci infilo come in un bozzolo; è piacevole sentire la pioggia, che batte sul telo della tenda mentre resto avvolto nel tepore di questa piccola tana.

E’ quasi l’una del mattino, quando il litro di birra, che mi sono bevuto, vuole uscire e io non posso resistere, mi devo alzare, ma non è un operazione facile. Come prima cosa devo liberarmi da questa imbottitura che ora è una camicia di forza, non devo bagnarmi, non voglio passare una notte all’umido. La tenda, pur piccola, sparpaglia e nasconde ogni cosa, così, a tentoni, armeggio tra i mucchi di vestiti e le attrezzature, cercando di non svegliare Rossana.  Dopo qualche minuto trovo le pantofole di plastica e un piccolo ombrello. Rannicchiato nell’ abside, con la punta delle dita, faccio scorrere la cerniera e poi uscire l’ombrello seguito dalla mia testa, quindi provo a mettermi in piedi, ma non ho appoggi e barcollo perdendo una ciabatta tra il telo della tenda e la borsa, devo chinarmi e ripetere l’operazione.

 Finalmente sono fuori, punto l’ombrello controvento e mi avvio verso il gabinetto. Cinquanta metri, che sembrano un’eternità.

La porta a vetri riflette la mia immagine, sono diventato una specie di sgangherato supereroe in calzamaglia verde e cuffia blu, con l’ombrello al posto della mantellina. Il bagno è illuminato e riscaldato, mi metto in piedi davanti all’orinatoio, ma ormai lo stimolo è passato e devo aspettare, allora appoggio la testa sulle piastrelle e il tepore mi fa addormentare sognando cascate e scrosci d’acqua. 

 Sono le quattro mattino ed è già l’alba, quando la storia si ripete; dannata birra!


Il Landmannalaugar  (le montagne colorate)

Dopo aver visitato il Circolo d’Oro, sentiamo il desiderio di avventurarci in luoghi meno frequentati percorrendo qualche dissestata pista. Quando campeggiavamo sulle rive del lago di Mývatn, dei ragazzi italiani ci avevano raccontato la loro avventura seguendo la pista che portava alle cosiddette: “Montagne colorate”, ricordo che raccontavano di aver perso la targa a causa degli scossoni e di aver bucato ben due volte le gomme della loro affidabilissima Land Rover.

Si parte verso la nuova avventura. Imbocchiamo lo sterrato F271 e in pochi chilometri ci troviamo sulla mitica Sprengisandur F26, che attraversa le zone desertiche dell’interno dell’Islanda da sud a nord, dove le leggende raccontano di briganti e fantasmi. Un cartello avvisa che da qui in poi la pista è riservata ai mezzi fuoristrada e il primo rifornimento di benzina si trova a 243 chilometri.

Ci fermiamo nell’ultimo rifugio per far benzina e prendere la carta topografica della zona, che ci permetterà di deviare verso la pista F208 fino alle montagne colorate.

Osservando la carta scopriamo che il nostro itinerario gira attorno ad un ghiacciaio dimora del vulcano Hekla, è il più attivo d’Islanda e noi lo teniamo d’occhio perché da un momento all’altro potrebbe sputare lava incandescente trasformando il ghiacciaio in una distruttiva bomba d’acqua.

 

 Appena abbandonata la F26 attraversiamo un ponte in legno sospeso sopra un incrocio d’acque dove quelle di un intenso blu non vogliono mescolarsi con le altre più fangose.

Superata la sbarra di sicurezza stradale, ecco  un cartello, “Gravel road - only 4X4”, chiamarla strada di ghiaia non dà l’idea di quello a cui si va incontro. Il fondo è sabbioso, con massi che affiorano, alcune lunghe salite hanno una pendenza di oltre il quaranta per cento. Devo inserire la doppia trazione e guidare in piedi spingendo sul manubrio in modo che il sidecar non s’impenni, poi si va in discesa con motore e freni a palla e la ruota anteriore che tende a slittare, mentre Rossana chiude gli occhi e per fortuna non ci sono guadi profondi. 

Costeggiamo un azzurro lago montano, contornato da montagne nere, macchiate dal verde intenso dei licheni.

Ora la traccia segnata dai grossi fuoristrada si è fatta più profonda e larga, così devo procedere con la moto nel solco e il side sulla sabbia. Un rumore metallico mi fa pensare che qualcosa s’è staccato, ma forse era solo un sasso ma all’improvviso il parabrezza crolla, ecco cos’era. L’Ural si sta svitando, una sosta è necessaria, apro il bagagliaio del side, prendo gli attrezzi e comincio a serrare le viti e a sistemare il parabrezza. Mentre stringo bulloni, guardo Rossana, che tenta di fumare nonostante il vento teso consumi la sigaretta in pochi istanti. Intorno a noi c’è solo terra nera e lontane montagne scure, siamo nel nulla, questa situazione sembrerebbe scoraggiante, invece siamo tranquilli e sicuri che tutto andrà bene.

Oltre la salita il panorama cambia; prima le montagne si macchiano di verde, poi, avanzando, la dura pietra nera diventa rosa e sfumata d’ azzurro.

Questi colori non esistono nel nostro pianeta, forse  un pittore, stanco della terra nera, ha lanciato verso il cielo la sua tavolozza dipingendo il mondo, per poi restare senza parole ad ammirarlo. 

  

Davanti a noi c’è una zona pianeggiante ed anche una pozza d’acqua calda, la tentazione di fermarci a campeggiare e camminare per ore tra i colori, è molta, ma tra una settimana la nostra nave suonerà le sirene per riportarci dall’altra parte del mare. Di certo un giorno torneremo.

Riprendiamo La F208 e poi la 210, dirigendoci verso la costa sud, ; la pista non migliora e a poco a poco il nero e il grigio riprendono il dominio.

 

Dopo molti scossoni e strani rumori provenienti dalla trasmissione sul carrozzino, riprendiamo l’asfalto della strada numero uno e sembra di viaggiare sul velluto a grande velocità.

Proviamo a guardarci attorno per trovare un alloggio per la notte, alla prima indicazione svoltiamo a destra seguendo un sentiero, che porta ad una casa sul mare. Il proprietario è molto gentile, ma ci dice che è rimasta solo una stanza con quattro letti e costa duecentocinquanta euro per una notte, gli dico che per noi è troppo cara e che cercheremo altrove. Mentre discutiamo, un labrador color miele mi si avvicina con un bastone in bocca esortandomi a giocare, lancio e lui ritorna, ancora e ancora. Ho nostalgia dei miei cani, quando mi rivedranno annuseranno tra i bagagli per scoprire da quali lontane terre sono tornato. Sentiranno l’odore del ghiaccio e del vento del deserto nero, dei licheni, delle volpi artiche e delle renne, così potranno immaginare queste terre e capire quanto sia stato, faticoso ed importante questo viaggio.

Ripreso il viaggio in direzione di Vik, per curiosità, mi fermo alla reception di un hotel, che a me sembra più un rifugio costruito con una serie di container. Con aria altezzosa l’addetta al ricevimento della clientela mi dice che in questo “Grand hotel” si accede solo su prenotazione e non vuol dirmi il prezzo di una camera, ma, tra le carte appoggiate sul bancone, vedo una ricevuta che certifica il pagamento di trecento e sessanta euro a notte; ma in fondo a me cosa importa ? Io ho la tenda e la cambusa, quindi posso astenermi da queste follie.

 Percorsi alcuni chilometri incrociamo una segnale, che indica un paesino sul mare,  c’è anche da dormire e da mangiare. Si tratta di quattro case e di un edificio che sembra una colonia, proviamo a bussare a quest’ultimo scoprendo che la porta è aperta, allora entriamo facendoci sentire, ma nessuno ci accoglie.

C’è una grande stanza con molti tavoli allineati, poi un lungo corridoio dove sono accatastati mobili e sedie. Ripetiamo ad alta voce: “E’ permesso?”, ma ancora nessuno, quando, si apre la porta e, alle nostre spalle, una signora ci riconosce: “Ho visto il sidecar, voi eravate sulla nave, c’ero anch’io”.

Ci spiega che qui è tutto chiuso, ma che se vogliamo possiamo campeggiare sul prato, ci sono anche i servizi esterni con doccia calda ed è tutto gratis, ma un vento freddo ci induce a chiedere se in zona c’è un’altra sistemazione: “certo, la fattoria di Stefan, è dall’altra parte del fiordo, fa da mangiare e ha da dormire”.

La fattoria è più bella dell’ hotel, è circondata dalla campagna dove una mandria di cavalli pascola e da lì  si può vedere il mare.

Il prezzo è di centosessanta euro a notte, ma in Islanda non si trova di meno e poi ci viene assegnato un intero appartamento, con una cucina moderna e ben attrezzata, un salotto con comode poltrone, la televisione e una libreria.

Appena deciso di pernottare qui cerco il portafogli per consegnare i documenti, ma non lo trovo, attimi di panico, soldi, carta di credito, documenti , è tutto perso! Rovisto tra borse, tasche e bagagli e già m’immagino mentre spiego, a chi non so, che ho perso tutto; poi nella borsa da serbatoio, sotto la carta geografica, nella tasca segreta lo ritrovo. Come diavolo mi è venuto in mente di nasconderlo lì? Adesso sono stanchissimo. Scarico i bagagli mentre Rossana prepara da mangiare, poi andiamo a dormire in un soffice letto tra le trapunte in piuma d’oca.

Abbiamo dormito quasi dieci ore quando alle otto del mattino andiamo a fare colazione. Sto riempiendo il piatto di uova, prosciutto, formaggi e dolci, quando sento parlare italiano. Ci sediamo in compagnia per  scambiare due chiacchiere. Le solite cose, ma poi lei tutta sodisfatta dice: “Avete visto questa notte che meraviglia?” Non capisco di cosa stia parlando, “Ma dai ! non avete visto l’aurora boreale verso l’una di notte, guarda che fotografie !” Scuoto la testa in segno di rammarico, ma a quell’ora dormivamo.

Da metà agosto in poi la notte artica comincia a farsi vedere e in quelle poche ore di buio, con il cielo terso è possibile ammirare i giochi di luce delle particelle elettriche, che il vento solare trasporta verso i poli.

La prossima tappa è la spiaggia nera di Vik e poi il ghiacciaio più grande d’Europa, Il Vatnajökull, che scivolando nel lago Jökulsárlón produce gli iceberg, questi, come navi di ghiaccio, lentamente seguono la via del mare.

Mancano sei giorni all’ arrivo della nostra nave e secondo i nostri calcoli siamo in anticipo di un giorno, per cui Rossana consultando la guida dell’Islanda scopre, che siamo ad un passo dall’imbarco per l’unica isola abitata dell’arcipelago delle Vestmannaeyjar dove le alte scogliere sono il rifugio dei Puffin, strani uccelli, che sembrano usciti da un libro fantasy.

  

L’isola di Heimaey

Percorriamo la strada principale per pochi chilometri e all’altezza della cascata Seljalandsfoss, imbocchiamo la 254 che ci porta dritti al porto.

E’ il ventiquattro agosto e durante l’attesa per l’imbarco apprendiamo, che in centro Italia c’è stato un forte terremoto con morti e feriti. Interi paesi, ricchi di storia ed opere d’arte, sono crollati.

Il sidecar è il primo a salire sul traghetto e dopo averlo assicurato con cinghie e lacci, perché l’Oceano Atlantico non sta mai fermo, saliamo sul ponte più alto dove il vento, che soffia dalla Groenlandia, gela orecchie e naso.

La navigazione non è lunga, in meno di un’ora avvistiamo le prime isole dell’arcipelago e dopo poche miglia entriamo in porto.

La nave rallenta ed effettua le manovre, passiamo radenti alle alte scogliere di pietra grigia, che contrastano con il verde luminoso dei prati, e il nero delle spiaggia.

L’isola è dominata dal vulcano comparso all’improvviso nella notte del 23 gennaio 1973, quando una spaccatura nella terra lunga tre chilometri iniziò ad eruttare lava distruggendo tutto ciò che la circondava. In due settimane s’era alzato un imponete vulcano, che la gente del posto chiamò Eldfell (monte di fuoco). L’isola venne evacuata e rimasero solo gli specialisti della protezione civile, che riuscirono a deviare il fiume di lava salvando gran parte delle abitazioni.

Appena sbarcati percorriamo l’unica strada da un capo all’altro  dell’isola, sono solo cinque chilometri, . Raggiunto il faro nel punto più alto della scogliera  torniamo in paese a cercare un luogo dove fermarci per la notte.

Il campeggio è bello tra parti verdi e scogliere, ma un letto tra quattro mura sarebbe meglio, così ci dirigiamo verso l’ostello.

Prima di entrare è doveroso togliersi le scarpe e indossare le ciabatte, poi, chiavi alla mano, apro la porta della nostra camera e appoggio i bagagli.

Sopra il letto c’è una scritta in inglese, la solita frase, una di quelle, che da adolescenti scrivevamo sul diario, ma che ora, attraversando queste terre artiche, aspre ed instabili, assume un significato più vero:

“La vita è breve, spacca le regole, perdona velocemente, bacia lentamente, ama veramente, ridi incontrollabilmente e non rimpiangere nulla di ciò che ti ha fatto sorridere”.

 Poi, lo so che la frase continua:

“Tra vent’anni sarete più delusi per le cose che non avete fatto che per quelle che avete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro. Prendete con le vostre vele i venti. Esplorate. Sognate. Scoprite.”  - Mark Twain.

Apro la finestra e proprio dietro le prime case c’è il muro di lava, ancora pochi metri e avrebbe distrutto il centro di questo piccolo abitato.

   

Girovaghiamo tra le strade cercando di cogliere lo spirito di questo villaggio di pescatori, un bambino chiede se sono arrivato fin qui con il sidecar e quando gli dico di sì, mi fa i complimenti e se ne va di corsa sorridendo.

Davanti ad un negozio di alimentari, mentre aspetto che Rossana termini gli acquisti per la cena, un signore si mette a parlare con me, vuol sapere tutto sull’ URAL, poi mi mostra la tessera del club motociclistico di cui è presidente. Quando arriva Rossana, siamo alle pacche sulle spalle e, come tra vecchi amici bikers, non possiamo rifiutare l’invito a seguirlo per visitare la sede del moto club.

Il nostro amico apre un (il) cigolante portone di una piccola fabbrica, che sembra abbandonata, e ci invita a parcheggiare il sidecar, ma prima di entrare scatta delle fotografie davanti al simbolo del club, dicendoci: “Qui non arrivano spesso motociclisti, due Italiani in sidecar sono un evento da non perdere”.

L’interno del club è arredato in stile saloon, ma invece dei cavalli legati alla staccionata, ci sono delle “Custum” attaccate alla presa di corrente elettrica per ricaricare le batterie.

Lucide, più che nuove, con tutti gli accessori possibili, di certo non sono le moto più adatte a queste zone, ma possedere l’oggetto del desiderio può far sognare le strade d’ America tra Chicago e Los Angeles.

Il loro viaggiare è arrivato al massimo fino alle isole Fær Øer.

E’ stata una lunga attraversata in nave e pochi chilometri via terra, ma la sera davanti a una birra ancora ne parlano. E’ dispiaciuto d’essere solo lui ad accoglierci, ma purtroppo durante la settimana i soci non vengono, perché tutti lavorano alla fabbrica del pesce dalle sette del mattino alle sette della sera e poi vanno a casa. Quando arriva il momento dei saluti con orgoglio ci regala il simbolo del club.

 

Prima di preparare la cena all’ostello ci fermiamo al bar accanto e scolandoci la birra Viking, decidiamo di restare svegli fin oltre mezzanotte, perché il cielo è sereno e la posizione è favorevole, andremo sulla punta del faro ad aspettare l’aurora boreale.

Ormai è quasi buio e solo quella sottile fascia rossa dell’ultimo sole non permette alla notte di oscurare il cielo.

La strada per raggiungere il faro è ripida e i tornanti sono stretti.

Arrivati in cima il vento vorrebbe portaci via, allora schiaccio il berretto sulla testa, ma ugualmente se ne va, così lo devo rincorrere prima che  voli  verso il mare.

Il tempo passa e il freddo penetra nelle ossa, un sorso di grappa ci aiuta a sopportare e aspettare con pazienza l’aurora boreale.

E’ mezzanotte passata quando si fa buio e noi con gli occhi puntati verso il cielo vediamo arrivare delle grandi nuvole nere, che in un attimo scagliano la loro pioggia sottile consigliandoci di rientrare all’ostello.

Durante la notte mi sveglio, poi mi allungo verso la finestra per vedere se quelle nuvole se ne sono andate, ma la pioggia batte ancora sul vetro.

La mattina è ritornato il sole, così rifacciamo il giro per salutare Heimaey.

Con i biglietti in mano e il casco appeso allo specchietto risalgo il ponte della nave e assicuro il sidecar con le cinghie. E’ strano come ci si possa affezionare ad un luogo in un solo giorno, sarà forse perché quest’isola è così piccola da lasciarsi conoscere in poco tempo o forse perché ogni giorno s’avvicina di più l’ora del ritorno. Così spirito e corpo combattono, perché il primo vuole vagare libero senza ritorni, l’altro vuole fermarsi e riposare.

Mentre la nave esce dal porto, mi ricordo che questa è l’isola dei puffin e noi non ne abbiamo visti, ma di fronte ai grandi scogli di lava nera, eccoli levarsi in volo e poi tuffarsi nelle profondità marine in cerca di prede.

 

La cascata Seljalandsfoss

Il fiume Seljalandsá gettandosi da un’alta parete rocciosa diventa la cascata Seljalandsfoss, ci passiamo proprio davanti ed è impossibile non vederla. E’ facile raggiungerla e proprio per questo è molto frequentata.

Ci Parcheggiato il sidecar e tolto il casco m’infilo il cappello, perché piove.  Vedo che una lunga fila di turisti attende il turno davanti all’unica toilette e un’altra aspetta davanti al chiosco dei panini. In verità non c’è molta gente, ma l’Islanda non è adatta al turismo di massa, così basta una cinquantina di persone per far un gran rumore in questo santuario della natura.

Ci inerpichiamo lungo il sentiero, che conduce dietro all’imponente getto della cascata. E’ una breve passeggiata, ma il cammino è ripido e scivoloso. Una signora si lamenta delle scarpe non adatte, una coppia di giapponesi rischia un selfie acrobatico, proprio quando un signore sta scivolando verso valle.

Il rumore dietro la cascata è assordante ed è impossibile restare asciutti, ma lo sguardo attraverso lo scroscio d’acqua cattura immagini da fiaba.

 

Il vulcano del Eyjafjallajökull

Vik dista sessanta chilometri dalla cascata, viaggiamo con calma guardandoci in giro e dopo pochi chilometri ci fermiamo di fronte alla fattoria che, a marzo del 2010, fu distrutta dall’eruzione del vulcano Eyjafjöll. 

In quel periodo gli aeroporti del nord Europa dovettero sospendere i voli a causa della colonna di cenere che copri il cielo.

In un solo giorno la terra si alzò di tre centimetri, poi seguirono tremila scosse di terremoto e il venti marzo del 2010 il vulcano sputò fuoco e cenere e il ghiaccio si trasformò in una distruttiva bomba d’acqua.

 In poche ore della ricca fattoria non era rimasto nulla, ma i soccorritori avevano già messo al sicuro la famiglia e i loro animali.

Oggi del disastro non è rimasta traccia, la fattoria è rinata e gli animali possono pascolare tranquilli.

Sto osservando un elicottero, che atterra proprio vicino al sidecar, quando vedo avvicinarsi dei turisti sorridenti che sembrano rivolgersi a proprio a me, sono Italiani e sono gli amici dell’URAL sidecar club, saluti e abbracci, mi guardo attorno per vedere dove hanno parcheggiato le moto, ma niente, hanno noleggiato un’ auto, ora devono ritornare a Reykyavik per prendere l’aereo, che li riporterà a casa.


VIK

Raggiungiamo Vik nel pomeriggio e decidiamo di rinviare alla mattina successiva la visita alla famosa spiaggia nera per poterla ammirare senza la folla. Cerchiamo un letto dove dormire, ma non c’è un posto, ogni insegna ha un cartello con scritto “full”. Provo a telefonare, ma l’unico gestore che mi risponde ha voglia di scherzare e mi chiede per quale anno intendo prenotare, perché fino a tutto il 2018 è al completo.

Resta solo il campeggio, che  è contornato da pareti rocciose dove nidificano gabbiani e stercorari, un luogo piacevole, ma in quanto a servizi di bagno e cucina un vero disastro, per cui, dopo montata la tenda, decidiamo di rinunciare alla doccia e andiamo mangiare in ristorante.

Al ritorno ci fermiamo alla fabbrica della lana e così compro il maglione grigio con lo stemma dell’Islanda e la scritta: “Artic explorer" , è quello che indosso ora, proprio mentre scrivo, è caldo e odora ancora di licheni e pioggia.

Questa mattina siamo tra i primi a togliere la tenda e a partire e quando arriviamo in spiaggia soli, possiamo passeggiare sul bagnasciuga, mentre la spuma bianca delle onde s’infrange portando con se centinaia di piccoli sassi neri, che rotolando suonano la musica del mare.

Dall’altra parte della spiaggia, vicino al punto di ristoro, arriva la prima corriera. I passeggeri si precipitano alla toilette, poi, davanti al banco, alzano le braccia per farsi notare dalla barista, che corre su e giù ma scontentando tutti. Cinque minuti di confusione, poi,  quando la guida chiama, il bar si svuota e una fila di colorati e vocianti turisti s’avvia a cogliere le emozioni di profonda solitudine e di spirituale immensità, che questa spiaggia ispira;  di contrasto, un nero scoglio, simbolo fallico del mare, argina lo sguardo verso l’orizzonte.

 Ad uno ad uno, gradino per gradino ci arrampichiamo su questa scalinata di pietra grigia, che pare sorta dai pesanti passi di un gigante, ma la scienza spiega che è opera dell’improvviso incontro tra la lava incandescente e la gelida spuma del mare.

  

Il ghiacciaio Vatnajökull 

La nostra strada prosegue verso il più grande ghiacciaio dell’Islanda, il Vatnajökull, che con ottomila e cento chilometri quadrati è il più grande d’Europa, è più grande della mia regione, il Friuli Venezia Giulia.

Lo spessore del ghiaccio raggiunge i millecento metri e la calotta glaciale  scende fino al mare attraverso il lago Jökulsárlón.

Percorriamo la strada principale e quando compare l’immensa distesa bianca il vento diventa più freddo e le nuvole più scure.


Il gelo dell’artico, che brucia la pelle, e il riflesso del sole che acceca, inducono ad avventure che evocano i grandi ghiacci del Polo Nord, . Abbandoniamo la strada principale e imbocchiamo uno sconnesso sentiero che raggiunge una lingua del ghiacciaio, poi  proseguiamo a piedi fino a toccarlo.

Una targa in memoria di una spedizione tedesca, che non fece più ritorno, segna la fine del sentiero sicuro. Seduti su una roccia, come fosse il campo base, con lo sguardo scavalchiamo crepacci e seracchi, camminando per centinaia di chilometri, fino a raggiungere il vulcano Askja , scendendo nel Moðrudalur,  nostra prima meta.

 

Vogliamo arrivare alla laguna degli iceberg prima del buio, ma non è facile concentrarsi alla guida, gli occhi fuggono guardando ora verso la scogliera, poi verso il ghiacciaio illuminato da intensi raggi di sole che trafiggono le dense nubi scure.

Attraversiamo il ponte sul fiordo ed appare la prima porta dove si formano gli iceberg, è tardi, ma rallento fino a fermarmi attratto irresistibilmente da questo luogo gelido e inaccessibile, familiare solo a foche e orche.

 Lungo la strada non c’è anima viva e intorno è tutto deserto, proseguiamo nella speranza di trovare una sistemazione per la notte, che, per fortuna, non tarda a frasi vedere.

L’ostello è una struttura grezza, ma è possibile scegliere tra camping, stanza in comune e bungalow. La pioggia si fa sempre più sottile, è quasi ghiaccio, così scegliamo un letto al caldo nel piccolo chalet.

Scarico i bagagli, poi apro e spargo in ogni angolo attrezzature, teli e vestiti, in modo che tutto si asciughi e così la nostra nuova casa assomiglia ad un magazzino. Dopo tanto ghiaccio e pioggia, lasciar scorrere l’acqua calda della doccia sulla testa e sulle spalle è un piacere a cui non vorrei più sottrarmi.

Mentre ci dirigiamo verso le cucine, con vettovaglie e cibo, si avvicina un ragazzo italiano ammirato dal nostro viaggiare in sidecar. E’ un ciclista di quelli con tenda e bagagli, che si arrampicano lungo piste solitarie ed inaccessibili, è lui a darci degli eroi perché affrontiamo chilometri in condizioni estreme con un mezzo dall’aspetto antico e fragile. Proprio lui, che solitario suda e gela pedalando fino a sfinirsi, come può pensare che per noi sia più dura? Allora mi confida un piccolo segreto: “Non fidarti dei ciclisti, appena sono stanchi caricano la bici su una corriera, scendono qualche chilometro prima della meta e poi prendono l’areo per tornare a casa. Voi invece dovete restare in sella al vostro mezzo e riportarlo a casa sulle sue ruote”.

Ceniamo insieme scambiandoci scatolette e biscotti, ascoltando i suoi racconti da ciclista in Islanda:

 “Ho pedalato senza incontrare un qualsiasi essere vivente per dieci ore, nel fango, tra la nebbia ed è incredibile che anche piovesse. Vedevo solo la ruota anteriore della bici senza capire dov’ero ,in queste condizioni è facile sentirsi persi, il morale scende fino ai calzini bagnati e le gambe cedono. Poi un raggio di sole ha sciolto la nebbia e il panorama si è aperto sui ghiacciai,  allora il morale e salito alle stelle ridandomi la forza di continuare.”

Quando gli abbiamo offerto una scatoletta di carne in gelatina, ci ha raccontato della sua scelta alimentare vegetariana, che poi ha dovuto abbandonare, perché dimagriva a vista d’occhio e perdeva tonicità muscolare, così, anche se a malincuore ha ricominciato a mangiare proteine animali.

Ci siamo salutati la mattina, noi stavamo dirigendoci alla baia degli iceberg, mentre lui s’avviava verso Vik e da li (lì) avrebbe preso una corriera per raggiungere l’aeroporto di Rejkyavik.

 

Il lago Jökulsárlón e la baia degli iceberg

Anche se il luogo è frequentato, è facile isolarsi tra le montagne di ghiaccio galleggianti dall’intenso colore azzurro e sentirsi un esploratore artico.

Il Polo Nord non è diverso, ghiaccio e mare s’incontrano, mentre le foche competono con lo stercoraro artico per il cibo e i gabbiani stanno a guardare.

 

Il ghiaccio si muove, cambia colore, è vivo; alle volte  si pezza e, come le nuvole, assume forme, che la fantasia riconduce a visoni di mitici animali.

“Eccola!”  grido: ”E’ lei, la balena azzurra, come quella di Pinocchio”  Galleggia lenta e sembra guardarci, è solo ghiaccio, ma potrebbe essere l’inizio di una fiaba.

Non potevamo credere che i colori fossero veri, forse ci stanno ingannando, ho pensato, e questo è il palcoscenico di un’agenzia turistica, allora per essere sicuri abbiamo acquistato i biglietti e ci siamo imbarcati su un pesante mezzo anfibio, per guardare ogni particolare e toccare con mano, ciò che non sembrava vero.

Enrico, è il nome della guida, ha poco più di vent’anni, Toscano con lunghi capelli “rasta”, studente all’università di lingue di Pisa.  Ha una faccia simpatica e fa ridere i passeggieri con delle battute su questo strano mezzo anfibio.

 

Piove, siamo tutti avvolti con dei fluorescenti giubbotti salvagente color arancione e il mezzo meccanico si muove goffo tra le asperità del terreno, poi, come una foca, si tuffa in mare trasformandosi in un battello.

Sfioriamo gli iceberg e i colori sono proprio così, non ci sono trucchi.

 Il timoniere, del piccolo gommone che ci segue, affonda le mani nell’acqua gelida pescando un pezzo di ghiaccio trasparente e luminoso, poi lo porge ai passeggeri. Ventimila anni ha il ghiaccio che teniamo in mano, si è formato durante la Glaciazione di Würm.

 

Enrico spezzetta il ghiaccio e ci invita a succhiarlo; sono incerto, ma poi porto alla bocca questo frammento che racchiude tracce  dello stesso ossigeno che respiravano i mammuth.

Siamo gli unici Italiani e la nostra guida chiede da dove veniamo, così iniziamo a raccontargli del nostro  viaggio “sidecaristico”. 

Sbarcati, ci dirigiamo verso il parcheggio ed Enrico ci segue perché vuole vedere la mitica URAL.

Strada facendo domando, come gli sia venuto in mente di fare la guida tra i ghiacci dell’Islanda ed allora ci racconta, che di queste terre non sapeva nulla, ma che era stanco di trascorrere la sua vita tra le aule dell’università e la strada di casa, voleva andarsene via per un po’.

 Avrebbe potuto aderire al progetto Erasmus, ma poi navigando sul web ha scoperto un sito islandese dove le aziende turistiche cercavano personale, che fosse in grado di parlare correttamente due lingue:

“Inglese e italiano , li so parlare bene, ho compilato il test e mi sono subito reso disponibile”.

 Dopo pochi giorni è arrivata la proposta di assunzione come guida turistica.

Mentre raccontava gli si leggeva in faccia lo stupore e la soddisfazione per quanto gli era capitato:

 “Non me l’aspettavo! La domanda era stata accettata per tutto il periodo turistico 2016, uno stipendio da favola con vitto e alloggio. L’università può aspettare, ho fatto i bagagli e sono partito. Spero di poter rimanere qui fino a dicembre”.

Chiacchierando con Enrico, ci prepariamo per la partenza contornati da un gruppo di giapponesi, che, pronti per l’imbarco, stanno indossando i giubbotti salvagente.

Casco e guanti, Rossana si è già infilata nel carrozzino; giro la chiave, le spie si accendono, premo il pulsante dell’avviamento e “Coff, cof, vssss”, tutti restano in silenzio, attimi di tensione, quando: “Tunf, tunf, tunf” e poi il “clock” del cambio. Adesso tutti sorridono, qualcuno anche applaude, allontanandoci salutiamo con la mano, mentre Enrico imbarca il nuovo gruppo di esploratori artici e con il suo fare da Ttoscanaccio ricomincia a raccontare la storia dei ghiacci del Vatnajökulsþjóðgarður..   

Stiamo abbandonando il sud per risalire lungo i fiordi dell’ est, non abbiamo una meta precisa, ma sappiamo che Djúpivogur è un piccolo villaggio, poco frequentato, ed è molto interessante per il birdwatching. E’ tardi, e mancano centottanta chilometri, di cui un lungo tratto di strada sterrata, non so se ci arriveremo, forse ci fermeremo a Höfn.


Parte quinta

Sosta a Hofn

Piove.

Entrando ad Hofn alla ricerca del campeggio incontriamo Jeff, che ha già piantato la tenda. Mi mostra le sue mani sporche d’olio, spiegandomi che ha dovuto sostituire una guarnizione rovinata. Per riprenderci dalle fatiche della giornata ci sediamo al pub a scolarci una vera birra, basta con le sciacquature analcoliche, ne abbiamo abbastanza anche della pioggia.

Alla reception del campeggio prenotiamo uno chalet, questa sera si cena in casa e poi a dormire, domani vogliamo partire presto, per seguire la strada della costa e arrivare a Djúpivogur in mattinata e poi fare un’escursione percorrendo luoghi selvaggi e scogliere scoscese.

Non ci va però di mangiare la solita scatoletta di tonno e fagioli, così risaliamo in moto e ci rechiamo al supermercato ad acquistare alimenti islandesi, poi, spinti più dalla fame, che dal buon senso, infiliamo nel carrello ogni cosa, anche una griglia usa e getta, ma, a conti fatti, sgusciamo dalla fila e in retromarcia risistemiamo le cose inutili sugli scafali.

Mentre Rossana studia la cucina e cerca le padelle per la carne di pecora, apro la sedia da campeggio e mi siedo di fronte alla moto per fare un po’ di manutenzione sotto la pioggia.

Nell’altro chalet sono arrivati dei ragazzi Giapponesi, che entrano ed escono sistemando i loro bagagli, hanno un gran daffare a ripararsi dall’acqua con delle ombrelle che volano con il vento.

La loro automobile a noleggio è ancora lucida, è di sicuro il loro primo giorno in Islanda.

Lei dà ordini, vorrebbe che i suoi bagagli fossero trattati con cura, ma bagnata, con ai piedi le ciabatte infradito non ha un aspetto minaccioso e nessuno le dà retta, allora si mette al riparo e lascia che le cose vadano così, senza il suo controllo.

 Dall’altra parte, dei motociclisti Danesi hanno preso possesso del bungalow e cercano di stendere al riparo la loro tenda che, immancabilmente, il vento trascina via.

Osservando divertito le varie situazioni, credo d’avere anch’io un aspetto piuttosto originale, seduto su un seggiolino, sotto la pioggia battente, mentre eseguo lavoretti di manutenzione aspettando la cena.

La tavola è pronta, la verdura è già condita e le birre sono aperte, ora a Rossana non resta che cucinare le bistecche di pecora, ma quando queste incontrano la padella bollente cominciano a sfrigolare e friggere e un fumo denso invade le stanze, così l’impianto antincendio emette il suo fortissimo suono d’allarme.  Allora salto sulla tavola e stacco dal soffitto la sirena silenziandola, mentre Rossana apre la finestra disperdendo il fumo tra la pioggia.

Molto rumore, ma ne valeva la pena, questa è una delle migliori cene islandesi.

In viaggio verso Djúpivogur,

È mattina, il sole compare tra le nuvole e noi abbandoniamo la strada principale per seguire le strade sterrate che si arrampicano sui promontori lungo la costa.

Lasciamo scorrere il momento, fermi ad osservare un paesaggio, mai uguale a sé stesso quando il mutare delle nuvole lo colora di un raggio di sole; allora la meta è dimenticata, poi il tempo si ferma ed ogni luogo diventa più vicino.

Gabbiani e cigni sono i padroni della scogliera mentre planano sui nidi riempiendo il vento dei loro versi.

 

Trekking a Djúpivogur,

Djúpivogur, è un villaggio di pescatori, poche case colorate, la fabbrica del pesce, un hotel e il campeggio con i chalet a forma di botte. C’è anche una tavola calda dove si serve fish and chips e un Vínbúdin che vende bevande alcoliche a buon prezzo.

 

Preso possesso della nostra botte, la numero quattro, ci prepariamo per la camminata e il birdwatching.

Con le scarpe da trekking ci inerpichiamo su dirupi strapiombanti sul mare, a farci compagnia un Piviere dorato, che senza paura esce dal nascondiglio, poi saltella, sale su un masso e gonfia il petto mettendosi in posa.

Passo dopo passo il villaggio si allontana e il silenzio ci avvolge, avanti a noi scure scogliere arginano il mare e proteggono angoli verdi dove pozze d’acqua dolce danno ristoro a centina d’uccelli.

 

A pochi metri da noi si posa una beccaccia di mare artica, tra le alghe ha individuato un mollusco.

Camminiamo senza sentire la stanchezza fino a ritrovarci dall’altra parte del villaggio ed è ormai sera, quando le barche dei pescatori rientrano in porto.

Mentre sto scolando una pinta di birra vedo entrare un tizio, che guarda proprio verso di noi e si avvicina con passo deciso, ha in mano la mia telecamera e dice di averla trovata sulla panchina all’entrata del paese e di averci seguito fin qui per consegnarcela. È proprio la mia cinepresa su cui è registrato tutto il viaggio, l’avevo dimenticata, ma come ho fatto?  Riesco a malapena a stringere la mano a questo onesto sconosciuto, che salutandomi esce frettoloso dal locale, avrei voluto offrigli una birra e ringraziarlo meglio, ma la sua famiglia lo sta aspettando, ancora un cenno di saluto attraverso i vetri del bar e l’auto parte.


Seguendo la costa verso Reyðarfjörður


E’ il ventotto agosto e decidiamo di seguire la costa fino a Reyðarfjörður ,  dove ci fermeremo per la notte.  Percorriamo la strada principale aggirando il Berufjörður, poi imbocchiamo la novantasei e di seguito la novecentonovantacinque che è un lungo sterrato scavato tra le rocce della costa nella penisola di Vattarnes.

Lungo la strada ammiriamo cascate e strapiombi, poi ci avvolge la nebbia, ma il vento in pochi minuti la spinge sul lato opposto del fiordo nascondendo l’altra costa e lasciando in vista le cime delle montagne. Così a Vattarnes torna a splendere il sole.

Fermi a riposare sulle rive di una piccola spiaggia, raccogliamo delle grosse conchiglie portate dalle mareggiate. Il nostro viaggio continua lungo questa solitaria strada osservati solo dalle pecore, poi incontriamo le renne mentre pascolano tranquille in riva al mare.

 

Le sorprese non sono ancora finite quando dalle profondità del mare, per pochi istanti, compare un lungo dorso nero, è una balena, il gigante dei mari, che riaffiora per respirare e poi scendere a profondità vertiginose dove nessuno può raggiungerla.

 

Sappiamo che il nostro viaggio sta finendo ed inconsciamente rallentiamo il nostro andare.

Ci sono sempre dei buoni motivi per fare una sosta: “Fermiamoci per fare delle riprese; c’è ancora da mangiare nella cambusa, è il posto ideale per uno spuntino; è meglio controllare l’olio motore, non si sa mai … ”

Ormai è sera e nonostante il nostro lento viaggiare abbiamo raggiunto Reyðarfjörður.

Gironzolando per il paese attrae la nostra attenzione un fabbricato nero, con gli infissi bianchi, dall’aspetto nordico ed anche un po’ lugubre, è la: “Taergesen guest house”.  Gli scuri arredi interni ricordano i vecchi pub, dove rudi pescatori discutono sul tempo bevendo birra e schnaps. 

Suono il campanello della reception ed arriva una ragazza, non sembra una vichinga, ma è Islandese da generazioni, poi la solita domanda: “Have you a free room?” la risposta è: ”Si”, scarichiamo i bagagli e ci fermiamo a dormire qui.

 

Vicino al banco del bar c’è una bacheca dove è esposto il cartellone di un film che è stato girato in questa locanda; si tratta di una serie televisiva intitolata: “FORTITUDE”, che nel duemilaquindici ha avuto grande fortuna. Un thriller, che racconta di un piccolo paese nordico dove non accade mai nulla e all’improvviso è sconvolto da un efferato omicidio su cui lo sceriffo e un detective indagano scoprendo storie horror.

Dopo cena facciamo due passi fino al porto, è un piccolo paese, ma c’è sempre qualcosa da fotografare, particolari che non devono sbiadire nei ricordi.

Su un muro grigio di un magazzino abbandonato, uno sconosciuto artista ha disegnato l’antica scena dell’uomo che lotta con l’orso polare per il dominio del territorio.

 

Il lago di Lagarfljót,

La mattina ci alziamo pigramente e seduti davanti all’abbondante colazione consultiamo la carta geografica.

E’ il trenta agosto e domani ci imbarcheremo per tornare nella vecchia Europa, è meglio non allontanarci troppo da Seyðisfjörður, così decidiamo di dirigerci verso il lago di Lagarfljót, dove il contadino Islandese Hjörtur E. Kjerúlf nel 2012 filmò il mostro del lago. Il governo Islandese, coadiuvato da un gruppo di esperti, confermò che il video è autentico e che l’animale immortalato nel filmato sarebbe il mitico Lagarfljótsormur, mostro marino il cui primo avvistamento risale al 1345.

 

Di mostri nel lago non ne abbiamo visti, ma bensì migliaia di uccelli acquatici, che sembrano non interessarsi al pericolo.

Come nel parco di Þingvellir, anche qui i boschi di pini sono opera di un progetto di riforestazione; tale tipo di flora, atipico per queste terre, è molto gradito dagli Islandesi, ma basta uscire dalla strada principale seguendo un qualsiasi sentiero che dopo pochi chilometri ci si ritrova tra prati, licheni e nere rocce vulcaniche.

Facciamo una breve sosta presso un ostello e ad accoglierci ci sono solo i cavalli islandesi, è tutto chiuso.

Proseguendo lungo la riva ovest del lago incontriamo un fabbricato dai muri bianchi ornati da pietre nere e con il tetto coperto d’erba, è la casa museo di Gunnar Gunnarsson, di sicuro il più importante tra gli scrittori Iislandesi. Camminando tra le stanze dell’abitazione, ancora arredate come allora, mi capita tra le mani un libro dello scrittore, lo apro a caso e la prima frase mi ricorda la durezza dei deserti che abbiamo attraversato:

«Chi non l'ha mai bevuto in una buca nella terra, a trenta gradi sotto zero e in mezzo a un deserto di montagne e tempesta, non sa cos'è un caffè.» (Gunnar Gunnarson, Il pastore d'Islanda, p. 85)

Il museo continua con l’esposizione dei residui sabbiosi dei più conosciuti vulcani islandesi ed è possibile osservarli con un potente microscopio. Raccolgo un po’ di cenere dell’Askja, il vulcano del deserto nero, quello che il primo giorno non abbiamo raggiunto a causa di un guado troppo profondo.  Sotto la lente del microscopio un granello di sabbia diventa un masso nero e lucente, piccolo figlio del vulcano e delle viscere della terra.

L’ultima stanza è dedicata agli eremiti cristiani di probabile nazionalità Irlandese, che nel decimo secolo arrivano in Islanda a seguito dei primi coloni Vichinghi, solo pochi resti ritrovati in sepolture nascoste dal tempo.

 La vista è finita e il biglietto d’ingresso prevede un ricco buffet, pausa gradita considerato che da questa mattina non mangiamo.

La strada asfaltata si trasforma in un fangoso sterrato che segue il lato ovest del lago, il cielo torna a farsi scuro e la pioggia riprende a battere sulla visiera del casco. Al nostro passaggio le Pittime reali (Limosa- limosa) lasciano i loro nascondigli sulla riva del lago e s’alzano in volo.

 

 

La casa di Torvj

E’ tardo pomeriggio quando un insegna con il disegno del letto m’invoglia a svoltare e seguire l’indicazione. Rossana vorrebbe raggiungere Borgarfjörður Eystri, un piccolo villaggio di pescatori chiuso tra le montagne Dyrfjöll e l’Oceano Atlantico, ma secondo me la strada è ancora lunga, almeno tre ore e ormai ho già imboccato uno sconnesso sentiero che porta alla meta dell’insegna.

Tra salti e pozze di fango attraversiamo un bosco di pini, forse l’indicazione era uno scherzo, stiamo avanzando da più di quindici minuti e all’orizzonte non si vede nulla, poi il bosco finisce e la strada s’inerpica.  Alla fine di una prateria c’è una piccola casa grigia e bianca con il tetto spiovente e null’altro. Il nostro arrivo non passa inosservato al padrone di casa che subito esce ad accoglierci, un omone alto due metri, con una lunga barba rossa e un’ascia in mano, è sorridente ed invitante, ma Rossana mi sussurra all’orecchio: “Questo è un serial killer, guarda! Ha già l’ascia in mano, ci offrirà ospitalità e con gentilezza, e la notte, ci farà a pezzi nel sonno”, a peggiorare la situazione c’è un giardino con alberi d’alto fusto recintato da una palizzata bianca: “Ecco dove seppellisce i resti dei cadaveri”, commenta Rossana. Certo che l’ambiente è il palcoscenico ideale per un film horror, ma io mi fido e ormai che ci siamo chiedo il prezzo e quello sì che mette i brividi. Vuole duecentocinquanta euro per una notte e mentre lo dice appoggia l’ascia, non mi lascio intimorire e provo a trattare strappando la promessa di un pagamento in contanti per centocinquanta euro.

 

Torvj è il nome del vichingo che ci ospita, da prima ci mostra una camera tutta bianca che profuma di lavanda, poi ci offre il tè, ma commette un errore, al posto dello zucchero porta il sale. La prima a servirsi è Rossana e dalla sua espressione si capisce che il tè al sale fa schifo. Torvj porta la mano alla fronte ed esclama: “Sorry”, allora tutti ridiamo, poi si dà da fare per rimediare all’errore.

Dopo essersi scusato spiega che sua moglie metteva lo zucchero in quel contenitore, ma oggi lei non c’è perché è a Rekjavik ad assistere l’anziana madre, un attimo dopo riporta dell’altro tè e del latte, questa volta con lo zucchero.

A guardarlo bene, adesso non ha più l’aspetto del serial killer, anzi sembra di più al gigante buono.

Per sgranchire le gambe andiamo ad esplorare la zona oltre il bosco, ma la nostra passeggiata dura poco, un po’ per la pioggia che aumenta la sua intensità, ma principalmente perché Rossana sta perdendo le suole, così facciamo ritorno e ci sediamo sulla veranda a compiangere la fine delle vecchie scarpe, per poi riporle nel bidone delle immondizie.

Durante la nostra breve camminata abbiamo fotografato dei funghi da mostrare a Torvj .

Sul tavolo della cucina apriamo scatolette di carne e birra, chiedendo a Torvj se vuole favorire, ma lui ha già mangiato e da un po’ di tempo non beve alcol, dice che durante l’inverno ne ha bevuto troppo e adesso fa astinenza, però ci fa compagnia. Approfitto per mostrargli la fotografia dei funghi che assomigliano vagamente a delle piccole Mazze di Tamburo, così inizia la nostra chiacchierata micologica.

In Islanda la leggenda racconta che i funghi sono nati dalla bava del cavallo ad otto zampe di Odino, che prima di dare via il suo occhio in cambio della sua infinita saggezza, si faceva chiamare Gandalf. 

Torvj, trova nella sua libreria una pubblicazione in lingua islandese, con nomi in latino, riguardante i funghi d’Islanda e dopo un’attenta osservazione ci troviamo d’accordo nello stabilire che potrebbe trattarsi della velenosa Lepiota Cristata, altro che Mazza di Tamburo.

Torvj racconta di essere nato in un rifugio nel Landmannalaugar (Le montagne colorate) e il suo nome deriva da una selvaggia località molto amata dai suoi genitori, che si trova in quei luoghi.

Sono le nove di sera, quando arriva una giovane copia di tedeschi, facciamo un po’ di conversazione, ma   questa serata ha il sapore del bicchiere della staffa, è ormai troppo tardi per continuare, per noi domani sarà il giorno dell’ultima esplorazione.

Gli occhi non vogliono restare aperti, così ci congediamo, ma mentre ci avviamo alla camera, Torvj si avvicina a Rossana e gli regala il Pennacchio di Scheuchzer a ricordo dell’Islanda e di questa solitaria casa al limite del bosco.

E’ una mattina piovosa, come tante altre qui in Islanda e le nuvole si rincorrono basse fino a toccare il tetto spiovente della nostra dimora dell’ultima notte islandese.

Cento cinquanta euro, come d’accordo, poi saluti e strette di mano, anche la coppia di tedeschi se ne va e Torvj è nuovamente solo nel silenzio di questo altopiano.


Il villaggio di Borgarfjörður Eystri

 

Qualche chilometro di sterrato ed arriviamo a Egilsstaðir, è la seconda volta che attraversiamo questa cittadina dove non c’è molto da vedere. Ci fermiamo per acquistare dei gomitoli di pura lana islandese, con i quali, sono certo, che la mia anziana mamma farà delle ottime sciarpe, poi entriamo in farmacia per acquistare delle pastiglie contro il mal di mare.

Imbocchiamo la strada novantaquattro, che fino a Eiðar è asfaltata, ma poi si trasforma in uno sterrato fangoso.

 

Cominciamo a salire e la pioggia, ora più intensa, lava il fango che abbiamo addosso, poi entriamo in una densa nebbia, che nasconde gli strapiombi su cui la strada si snoda. 

 

Ancora una volta un raggio di sole penetra le nuvole e in un attimo la valle sotto di noi s’illumina, allora scendiamo verso Borgarfjörður Eystri come in un volo planante.

 Poche case colorate e coperte d’erba, in questo villaggio, che sembra abitato da gnomi, elfi e folletti.

Informazioni certe dicono che qui si può gustare la migliore zuppa di pesce d’Islanda, ci guardiamo attorno e, individuato l’unico pub, entriamo sperando di non aver sbagliato.

È vero, la zuppa di pesce è squisita e per dodici euro se ne può prendere a sazietà.

Appesi ai muri degli schizzi a matita di uomini dalle lunghe barbe, dai visi segnati dalla salsedine e dal gelo e le loro donne dallo sguardo triste di chi aspetta il ritorno.

Sul nostro tavolo sono appoggiati indumenti umidi e i caschi, ho slacciato anche gli stivali quando entra  una spedizione artica svizzera e subito la locanda si riempie.

Le loro guide, una coppia di coniugi del Canton Ticino, si danno un gran da fare ad unire i tavoli e ad ordinare zuppa e birra per tutti, poi la moglie esce dal locale e dal bagagliaio della loro attrezzatissima Land Rover prende i diplomi, che raffigurano la mappa del viaggio e certificano che il percorso è stato completato.

L’entusiasmo è alle stelle, applausi e ancora birra per ogni partecipante che riceve l’attestato, poi il capogruppo si ferma a fare due chiacchiere con noi:

“È andato tutto bene, quindici giorni d’avventura e abbiamo perso un solo mezzo, differenziale anteriore distrutto. Questa sera ci imbarchiamo, poi, arrivati in Danimarca, le Land Rover torneranno a casa con la bisarca e noi in aereo”.

Finite le premiazioni la spedizione artica riparte, noi invece aspettiamo ancora un po’, non abbiamo voglia di accodarci, vogliamo goderci in solitudine quest’ultimo piovoso e fangoso tragitto e nell’attesa un altro piatto di zuppa di pesce non guasta.

Son le due del pomeriggio e da Borgarfjörður Eystri a Seyðisfjörður ci sono circa cento chilometri, ma, considerate le condizioni metereologiche e della strada, ci impiegheremo tre ore; è ora di partire.

La pioggia ha ulteriormente peggiorato le condizioni della strada, che sui bordi comincia cedere a causa del continuo scorrere dell’acqua. L’URAL avanza sicura sollevando tanto fango da ricoprirci da capo a piedi.

Ad Egilsstaðir finalmente l’asfalto, il termometro all’entrata del paese segna quattro gradi e la pioggia si fa sempre più sottile e il vento più freddo.

Raggiunto il punto più alto, l’altipiano del lago Heiðarvatn, pioggia e neve si mescolano, ci fermiamo sotto un nevaio ad ammirare lo scorrere di un fiume tra strette gole e balzi di roccia.

Da qui su si vede il paesino di Seyðisfjörður e nel porto la nostra nave è già pronta.

La Smyril Line ci porterà via dall’Islanda

Il tempo è breve, la ripida discesa e gli stretti tornanti arrivano al pub del porto, ritrovo dei motociclisti prima dell’imbarco.

Al nostro arrivo, un gruppo di tedeschi alza i boccali di birra al grido di hurrà, forse qualcuno pensava che non ce l’avremmo fatta, ma noi abbiamo attraversato i luoghi più reconditi e selvaggi dell’Islanda e, sporchi di fango, ritorniamo con una lunga storia da ricordare.

Ci sono anche i gemelli di Ravenna che, con gli stivali rotti e le tute rovinate, racconteranno la loro avventura.

La nave suona la sirena, nessuno ha voglia di alzarsi, c’è l’ultima birra da finire. I motociclisti saranno gli ultimi ad arrivare, hanno ancora forza per un altro viaggio e  non sarebbe giusto che quella nave li risvegliasse dal loro sogno.

Una trentina di centauri sale il ponte della nave, poi iniziano ad assicurare le moto.

Stringo con forza le cinghie al telaio con le mani nel fango della strada per Borgarfjörður Eystri, che porterò con noi fino a casa.  

Vedo Rossana agitare i biglietti, ma Il rumore dei motori e dell’impianto di aspirazione della nave mi impedisce di sentire quello che dice, allora sguscio tra un intreccio di cinghie, moto e bagagli e mi avvicino per capire che cosa succede: “I biglietti non sono quelli dellae cabine, il numero è troppo alto, è quello delle cuccette”. Scendiamo al ponte uno ed entriamo nel corridoio che indica i posti letto da cinquemila in poi e con una smorfia di rabbia scopriamo che ci hanno sistemato nelle cuccette più alte.

Siamo sotto il ponte macchine.  Due metri per tre e due e mezzo di altezza, le nostre cuccette accolgono sei persone, dunque quindici metri cubi d’aria viziata e calda, non ci resta che andare a protestare alla reception.

Il solerte impiegato ristampa la prenotazione e ci fa vedere che noi abbiamo prenotato le cuccette, allora chiamo l’agenzia, che immediatamente invia copia della prenotazione a conferma la nostra versione. L’addetto osserva il documento e con fare sicuro mostra un altro foglio stampato da una fantomatica agenzia turistica danese, che risulta aver fatto da intermediaria per la prenotazione delle cuccette.

Non c’è più niente da fare, non ci sono cabine libere e la colpa è di una entità sconosciuta e non contattabile, . Inferociti, ma rassegnati al nostro destino, scendiamo nel ponte più basso della nave a stendere il sacco a pelo sul quel tavolaccio e dobbiamo anche ridurre i bagagli perché non c’è posto dove metterli.

Nel corridoio c’è gran confusione, non siamo le sole vittime di questo disguido, il gruppo dei fuori stradisti Svizzeri se la prende con le guide, altri motociclisti si precipitano al ponte degli automezzi per riporre i bagagli inutili e prendere i sacchi a pelo.

Voci di corridoio dicono che non essendoci molti passeggeri le cabine di seconda classe sono state chiuse per evitare le pulizie, così mentre i ricconi se la godono in prima classe, con idromassaggio, televisione, oblò vista mare e servizio in camera, sta per scoppiare una rivolta borghese guidata dai passeggieri di seconda categoria contro la dittatura della compagnia di navigazione.

Seduti sulle scale incontriamo i gemelli di Ravenna a piedi scalzi con gli stivali da moto in mano, non osano entrare, è da un mese che non se li tolgono e temono che l’odore possa scaldare gli animi ancora di più. Mi sembra di essere Jack Dawson nel film Titanic (paragone solo simbolico) ed è così che ci siamo sopranominati: “I sacrificabili”.

Un sussulto e la nave lascia gli ormeggi, saliamo sul ponte più alto dove il vento sembra portarci via e guardiamo l’Islanda che si allontana.

La sera, per consolarci, ceniamo nel miglior ristorante e poi sprofonderemo sulle poltrone del bar all’aperto ad ascoltare i racconti delle avventure islandesi bevendo birra e rum fino a notte inoltrata, non abbiamo voglia di andare a dormire sui nostri tavolacci, quando poi il sonno ci vince scendiamo tra i “sacrificabili” cercando di non far rumore. La  porta d’accesso al corridoio è chiusa e le nostre chiavi a scheda sono difettose, Rossana si siede sconsolata sui gradini e accende una sigaretta, io penso che non siamo abbastanza ubriachi per addormentarci qui, fortunatamente arrivano i gemelli e le loro tessere funzionano, così ne lasciano una a noi e finalmente siamo liberi di entrare ed uscire.

Arrampicandomi per raggiungere lo scomodo giaciglio, mi rendo conto di essere l’unico uomo tra cinque donne, mentre negli altri scompartimenti uomini e donne sono stati divisi, è un’altra prova della mala fede dei rimescolatori di prenotazioni, : hanno letto il nome Andrea, che nei paesi di lingua tedesca è femminile, e così hanno commesso un altro errore.

Prima di addormentarmi penso che il mio nome deriva dal greco: “Andros” e il suo significato è:  ”maschile,  virile”, ma come è possibile  attribuire simili attributi ad una ragazza, poi sprofondo nel sonno sperando di non russare.

Il risveglio alla mattina è peggiore della notte, Rossana è seduta sul suo tavolaccio e rovista nella sua borsa con l’espressione disperata: “È sparito il portafogli, con documenti, carte di credito e soldi, non so se piangere o saltare dalla branda e gridare come un’indemoniata svegliando tutti”.

La situazione è tragica, ma cerco di ragionare e non perdere la calma. La prima cosa da fare è andare alla reception, incrocio le dita e chiedo se hanno trovato un taccuino blu, l’addetto apre un armadio, chiede il nome di chi l’ha perso, poi sorridendo lo consegna a Rossana. C’è tutto, documenti, carte di credito e anche i soldi fino all’ultimo euro, Dio benedica gli onesti. Adesso possiamo anche accettare le cuccette dei “Sacrificabili”.

La giornata passa lenta distesi sulla sdraio con lo sguardo sull’ oceano fin quando gli occhi si chiudono, poi nel primo pomeriggio la nave attracca alle isole Fær Øer e possiamo sbarcare, abbiamo cinque ore di tempo per passeggiare in terra ferma.


Le Fær Øer


Un piccolo arcipelago sub artico formato da diciotto isole che fanno parte del regno di Danimarca, ma dal 1948 autonomo, tanto da coniare una propria moneta: “La corona delle Fær Øer”.

Rispetto all’Islanda, qui sembra tutto più europeo e anche il paesaggio è più dolce, peccato non avere più tempo per addentraci e scoprire la vera natura di questi luoghi.

 

Tórshavn (Porto di Thor) è una cittadina dall’aspetto raffinato con negozi alla moda, passeggiamo lungo la via pedonale del centro, poi, stanchi di gironzolare, ci fermiamo in un pub in compagnia di Gianfranco, un motociclista solitario, che con la sua vecchia Honda Transalp ha attraversato l’Islanda e ora sta tornando a Roma.  Chiacchierando con lui scopriamo, che di mestiere fa il doppiatore e il suo ultimo lavoro è la voce di Tarzan e di John Clayton III nel film: “The Legend of Tarzan”.

Mentre la nave imbarca i camion per il trasporto del pesce, noi torniamo a bordo per cenare alla steack-house in compagnia dei motociclisti italiani. Sono da poco passate le nove di sera e non ci resta altro da fare che ritornare sui divani del bar all’aperto a guardare le stelle e ad ascoltare i racconti di avventure islandesi, che, attraverso l’entusiasmo dei ricordi, diventano di ora in ora sempre più straordinarie.

Le ore di navigazione passano pigre, seduti sulla sdraio a scrutare il mare, oppure con una partita a carte e un giro nel negozio ad acquistare sigarette e super alcolici a buon prezzo.

Sono ormai passate tre notti, tra cuccette scomode, poltrone e ponti ventosi, oggi, a metà mattina, arriveremo in Danimarca ad  Hirtshals.

La poppa della nave si apre, i motori si accendono e, ad uno, ad uno, sbarchiamo in suolo di Danimarca.

Dobbiamo fare almeno trecento chilometri di asfalto e a ottanta all’ora non finiscono mai.

Ci fermiamo a pranzare ad Arhus in un ristorante cinese, poi, per rompere la monotonia del viaggiare in autostrada, cerchiamo strade alternative, ma il ritorno non è entusiasmante come l’andata e il desiderio di una doccia calda e un letto soffice ci induce a fermarci ad  Haderslev, dopo aver percorso trecento e sette chilometri.

L’Hotel Harmonien ha quello che serve dopo tre giorni di cuccetta in nave, per cui i centoventisei euro per l’albergo ci sembrano spesi bene.

Sono le nove di sera, il paese è deserto ed è già buio, solo una ragazza ci passa accanto camminando veloce attratta dalla musica che proviene dalla piazza. Un gruppo country suona davanti ad un bar dove si può bere una birra scura danese. Troviamo l’ultimo tavolo rimasto al riparo dalla pioggia ed aspettiamo che il sonno cominci a chiuderci gli occhi prima di rientrare in albergo.

Cinque settembre, questa sera alla ventidue e cinquanta il treno partirà da Amburgo per Monaco, dobbiamo essere in stazione alle otto di sera, così abbiamo tutta la giornata per percorrere duecentoquindici chilometri.

In Germania il ghiaccio e il vento gelido dell’Islanda sono sempre più lontani, le giacche da moto pesanti sono state riposte tra i bagagli, ma la pioggia continua a seguirci.

Pranziamo in una trattoria nei pressi di Kiel sul Mar Baltico; la spiaggia è umida e deserta, in mare una nave mercantile suona la sirena mentre passa accanto alle piccole derive che bordeggiano cercando il vento, poi compare il sole e una famiglia tedesca si fa preparare il tavolo all’aperto.

Alle sette di sera siamo ad Amburgo, in coda con le altre moto, pronti a salire in treno, insieme a noi ci sono i gemelli di Ravenna, loro hanno dormito in un ostello in centro città, diventato un dormitorio per senza tetto, dove hanno conosciuto una famiglia di emigranti Arabi che viveva lì da due anni e un Bosniaco, che dormiva con il coltello sotto il cuscino. Mentre chiacchieriamo si avvicina un uomo scuro di carnagione, vestito con dei Jeans sdruciti, una canottiera con scritte pubblicitarie e sandali ai piedi, comincia a parlaci in italiano in un delirio di parole: “Sono arrivato in Italia con barca, amo l’Italia e anche mafia, ma sono tutti razzisti, adesso sono in Germania e so dove dormire; tu dammi euro per mangiare”, poi se ne va cantando a squarciagola: “O sole mio”, mentre l’addetto delle ferrovie ci fa segno di caricare le moto sul vagone.

Il treno viaggia veloce, rifilando muri e staccionate, il ritmico rumore delle rotaie mi ipnotizza come un blues lento, poi il vagone sussulta sugli scambi, rimbomba e freme quando incrocia un altro treno.

Alle sette del mattino siamo a Monaco, gli ultimi saluti agli amici motociclisti e prendiamo la strada di casa attraverso le Alpi.

In Austria incontriamo un’auto che trasporta sul carrello delle bellissime e stravaganti Harley Davidson, poi altre moto ci incrociano; la biker-fest di Villach è cominciata. Siamo in zona e decidiamo di fare una sosta per pranzare a base di wurstel, crauti e birra.

Stanchi, sporchi, con i bagagli ancora infangati e seimila chilometri nelle ruote del sidecar, ci sentiamo fuori posto tra Vichinghi improvvisati e ragazze in topless, che cavalcano costosissimi “ferri” da esposizione.

 Terminato il pranzo, facciamo due passi tra le bancarelle che vendono gadget per uomi duri e abbigliamento da biker.  Un paio di guanti mi servono, i miei sono ormai distrutti e qui ce ne sono di tutti i tipi con borchie e spuntoni ed altri a buon prezzo, così mi avvio a scendere le Alpi verso casa con un paio di guanti nuovi.

Chilometro, dopo chilometro il caldo dell’estate italiana, mi invita a togliere ogni vestito superfluo e  continuare la corsa verso casa in maglietta a maniche corte.

Non piove più e il gelido vento artico è solo un ricordo.

Mentre il sidecar scende veloce lungo l’autostrda A2, guardo l’altra corsia dove un mese fa cominciava l’avventura e, se così parlò Zarathustra, anche noi, nell’eterno ritorno dell’uguale, continuiamo a viaggiare verso nord.

Siamo a casa ed è un giorno come gli altri, ora non resta che scaricare i bagagli e riordinare: “Pietra, per pietra, lana, scatole e fiori secchi”, per poi appicicarci l’etichetta dei ricordi.

 

FINE

 

Rossana & Andrea     6agosto – 7settembre 2016