IL FILMATO 

Questa non è una buona primavera. Sono le quattro del mattino e una fredda e sottile pioggia bagna le vetrate dell’ospedale. Seduto su una scomoda sedia osservo il volto di mia madre, che incolpevole mostra i segni del tempo passato. Il secolo del novecento ormai è storia e il nuovo millennio è proiettato verso il futuro, ma in questa stanza tutto sembra immobile ed ogni sforzo inutile. Nella penombra dei corridoi s’aprono invisibili porte verso sconosciute dimensioni, che fanno propri i lamenti e le coscienze di chi vorrebbe ancora restare. È il tempo in cui i ricordi devono essere più reali e vividi, perché questi sono le chiavi per aprire il varco verso il nulla più antico e sconosciuto. Queste estreme gesta finiscono tra cemento, legno e terra, poi, tornando a casa, come immerso in un liquido silenzio, la vita ricomincia con un vuoto da colmare. Ora non ho più vecchi da accudire e, prevedendo il tempo avanti a me, mi rendo conto che adesso il vecchio sono io.


Dopo la burrasca in questa mattina di fine giugno non ho voglia di impegnarmi in tortuosi ragionamenti per interpretare norme e poi riempiere di numeri lunghe tabelle dimostrative; vorrei invece raccontare fiabe, storie meravigliose, che rinfreschino questo caldo afoso, allora apro sulla scrivania una mappa, che copra le carte di lavoro e poi, con un leggero segno di matita, seguo le strade, che portano verso i confini dell’est. Sette nazioni da attraversare, per prime l’Austria, la Repubblica Ceca e la Polonia, poi la Bielorussia e la Russia, ed in fine la Lettonia e la Lituania; più di seimila chilometri da affrontare con il sidecar.

I CONFINI DELL'EST Agosto 2019

La prima cosa da fare sono i visti per Bielorussia e Russia, non servirà attrezzare il sidecar per lunghi attraversamenti in luoghi solitari e desolati, i problemi forse arriveranno ai confini, i consolati non danno notizie sicure, per cui sarà necessario verificare sul posto. Nei primi giorni d’agosto i passaporti con i visti e i pernottamenti sono pronti, adesso sappiamo che entreremo in Bielorussia il giorno diciannove agosto e potremo restarci per sei giorni, mentre per la Russia il visto vale dal giorno ventitré agosto fino al tredici settembre. Il primo luogo d’interesse è la foresta primordiale dei bisonti europei, la Belavezhkaja Puscha in Bielorussia, il secondo sarà Minsk, la capitale, ed infine Mosca in Russia e da qui ritorneremo a casa attraverso la Lettonia e la Lituania.

Quindici agosto la partenza – Mikulov Repubblica Ceca

il sidecar, con la borsa rossa sul portapacchi, attende la nuova avventura estiva. L’autostrada s’inerpica sulle Alpi verso Vienna, solo una sosta per riposare, perché la meta è lontana. Stiamo viaggiando da quattro ore, quando nei pressi di Graz il pneumatico posteriore esplode e il sidecar sbanda, riesco a malapena a mantenere la corsia di destra, mentre le auto incuranti sorpassano ad alta velocità. Fermo sulla corsia d’emergenza osservo il danno elencando una serie di improperi. Subito posizioniamo la moto sul cavalletto, poi a bordo strada trovo delle tavole di legno che aiutano ad alzare la moto, così io e Rossana, con sforzo sovraumano, le infiliamo sotto il cavalletto. Con le mani, incastrate tra lo scarico e una vite nascosta nella crociera del giunto cardanico, lotto con una coppiglia che non vuol uscire, fin quando con un gesto deciso mi ustiono le dita sfiorando lo scarico ancora bollente. Lo so, dovevo aspettare che si raffreddasse, ma bisognava fare in fretta e andarsene da quella scomoda situazione. Quindici minuti per cambiare la ruota bucata, altri cinque per ricaricare e riordinare i bagagli, qualche istante per pulirsi le mani e siamo pronti per ripartire verso Vienna. “Per niente male”, dico, quando alle cinque di sera entriamo in Repubblica Ceca. Fermo il sidecar per trovare una sistemazione per la notte nel centro di Mikulov; una cittadina della Moravia dominata da un castello del settecento, ma qui c’è una festa e non c’è posto per fermarsi a dormire, stiamo decidendo di procedere fino a Brno, quando la proprietaria dell’ albergo ci dice di provare poco più avanti, dove infatti troviamo da pernottare. Nonostante la ruota bucata, abbiamo percorso cinquecento ottanta chilometri e adesso un boccale di birra è il premio.

Il cielo si è fatto grigio questa mattina. Ci prepariamo alla partenza per attraversare la Repubblica Ceca e percorrere più il possibile la Polonia in direzione nord. Non abbiamo ancora raggiunto Brno che comincia a diluviare, ci fermiamo al primo distributore per un pieno di benzina e per infilarci le tute antipioggia. Chiuso tra l’ involucro idrorepellente e il casco integrale, sento a malapena lo scrosciare della poggia e spero che questo non sia il preludio del nostro viaggio, minacciato da forature e pioggia a catinelle. Raggiunta Ostrava non piove, entriamo in città e cerchiamo un gommista che ci sostituisca la camera d’aria danneggiata. Dopo complicati giri nella zona industriale imbocchiamo un sentiero, che finisce in un deposito di pneumatici, dove un corpulento gommista capisce al volo quello che vogliamo, ma non ha la camera d’aria giusta per la nostra ruota, per cui ci invita a fare un giro in centro città e ci garantisce che prima di mezzogiorno la nostra gomma sarà pronta. Alle dodici dopo aver scolato un paio di birre, ritorniamo all’officina e insieme a noi arriva anche la camera d’aria, il gommista si scusa del ritardo, ma è evidente che non è colpa sua. Terminato lo scrupoloso lavoro ci chiede trecentocinquanta corone, che al cambio fanno circa tredici euro. Riprendiamo il nostro viaggio verso le due del pomeriggio e siccome il sole è rispuntato decidiamo di abbandonare l’autostrada e di proseguire lungo strade secondarie fino al confine con la Polonia. Verso le cinque di sera, nei pressi di Woźniki in Polonia, individuiamo un cartello, che consiglia un vicino Hotel, così seguiamo le indicazioni, che ci guidano attraverso strade di campagna fino a una località chiamata Czarny Las, dove, accanto al laghetto, una villa settecentesca è stata adattata ad esclusivo ed elegante hotel.

Il trasferimento verso i confini dell’est oggi prosegue in direzione Białowieża, cinquecento cinquanta chilometri, per raggiungere l’ ultima sosta prima del confine con la Bielorussia. Per noi è un ritorno nella foresta, che, nel duemilaquindici, ci aveva affascinato per le grandi querce e i suoi animali*. Sono le sette della sera quando, come quattro anni fa, parcheggiamo la moto davanti all’hotel Żubrówka e nulla sembra cambiato fin quando alla reception mi rendo conto che i prezzi sono raddoppiati e non c’è più il cameriere che apriva la porta con un inchino. La nostra camera non ha la terrazza con vista sulla foresta, ma una triste veduta sui camini fumanti delle cucine. Scendiamo le grandi scale fino al ristorante e con nostro stupore scopriamo che non ci sono più i tavolini con le candele e i camerieri con il tovagliolo sul braccio, ma un buffet compreso nel prezzo , dove un’ orda di vacanzieri si avventa accaparrandosi montagne di viveri, mentre un fisarmonicista intona canti popolari polacchi invitando i commensali a ballare tra i piatti di goulash e di paczki alla vaniglia.

Sono le otto del mattino e stiamo aspettando le uova strapazzate e il caffè. Nell’attesa controllo i passaporti e il visto: “È tutto a posto, fra poco varcheremo il confine” e nel dirlo mi emoziono immaginando come, dall’altra parte della sbarra, il mondo cambierà. Consultiamo la carta geografica, la frontiere più vicina e quella di Peschatka in Bielorussia, ma non sono sicuro che sia un varco internazionale, per cui chiedo alla reception informazioni, ottenendo la conferma che con il nostro visto si può passare, chiedo anche se sanno che cosa ci aspetta oltre la frontiera, ma le risposte sono vaghe e contrastanti: “Fate attenzione, perché non troverete distributori di benzina, riempite il serbatoio e anche le taniche”, ci dice il portiere; subito replica l’addetta alla reception: “Cosa dici, non possono passare il confine con benzina nelle taniche”. Nessuno di loro, però, ha attraversato la frontiera, così al distributore facciamo il pieno nel serbatoio e una spruzzata di benzina nelle due taniche, in modo da poterci giustificare: “Non sapevo fosse rimasta ancora della benzina dopo l’attraversamento della Polonia” e siccome nessun doganiere mi capirà ho preparato la traduzione in lingua bielorussa sul cellulare, insieme ad altre frasi di necessità e cortesia. Mancano cinquantadue chilometri alla dogana e mentre ci avviciniamo, la strada diventa più stretta e dissestata, non c’è traffico, stiamo viaggiando da soli verso la Bielorussia. Un passaggio a livello incustodito ferma il nostro andare mentre transita un treno e la lenta sfilati dei vagoni sembra non finire. Percorriamo gli ultimi tre chilometri in una terra che sembra di nessuno, sul bordo strada dei cartelli avvisano di non avventurarsi nel bosco senza aver attraversato i controlli della dogana. Le scritte sono in cirillico e ammoniscono il passante così: “небяспека смерці” che significa pericolo di morte, ed è da crederci, perché in Bielorussia vige ancora la pena di morte.

Diciotto agosto – il confine con la Bielorussia

Un cancello chiuso sbarra la strada; fermo il sidecar e scendo cercando di capire cosa devo fare e lo faccio pensando ad alta voce: “Forse c’è un campanello per avvisare, forse devo chiamare. Qui è tutto chiuso, avrò sbagliato strada?” Mentre mi guardo attorno, da un’ automobile, che sembra abbandonata, esce un uomo scalzo, in canottiera e braghette, spiegandomi a gesti che sono nel posto giusto e che devo aspettare fin quando arriverà un militare ad aprire questo portone, poi, con lo sguardo preoccupato mette insieme due parole in spagnolo: “Estan mirando” ( Loro ci osservano) e indica una telecamera nascosta tra i rami di un pino. Non c’è altro da fare che restare fermi sotto questo sole, mentre le gocce di sudore scendono lungo la fronte e le follate di vento scagliano la polvere della strada in faccia. Più tardi, con passo lento e sigaretta in bocca, arriva il custode del cancello, che fa cenno d’entrare al tizio dell’automobile, poi scruta noi e anche il sidecar e con benevolenza ci lascia entrare nel recinto dei controlli doganali. All'interno una lunga fila di camion attende l'ispezione e gli autisti hanno facce dure e rassegnate. Il primo doganiere ci ferma dietro una vecchia Mercedes targata tedesca e mi consegna un documento da compilare scritto in cirillico, poi osserva il sidecar e in particolare la targa esclamando: “Italiano Ural!”, sembra non credere a ciò che vede, m'invita a scendere dalla moto chiedendo i passaporti con il visto, poi ripete: “ Italiani! “e dalla sua espressione traspare un ironico stupore, dopo scaccia da un tavolo due persone che stavano mangiando un panino, pulisce le briciole con la manica della camicia ed estrae una penna dal taschino per aiutarmi a compilare il modulo. Finito di compilare il modulo chiede qualcosa che non capisco, così si sforza di ripeterlo, ma io allargo le braccia e ancora non capisco, allora scuote la testa e arriva l’illuminazione: “Pasport moto”, ci siamo capiti e sorridiamo. Consegno il libretto di circolazione e la patente per compilare un altro formulario, infine prende il timbro e sigla il documento dicendomi: “Turist” e fa cenno con la mano di recarmi in un ufficio.

Allo sportello consegno i moduli a un’impiegata, parlando in inglese, mi spiega, che provvederà a compilare tutti i documenti necessari alla convalida dei visti. Nel frattempo inizia il minuzioso controllo dei bagagli e del sidecar. Sono passate più di due ore da quando siamo stati invitati a oltrepassare la sbarra e i documenti non sono ancora stati restituiti. Abbiamo risistemato i bagagli e siamo stanchi di aspettare, quando finalmente un graduato mi chiama e storpiando il mio nome mi da i documenti, un lasciapassare per il sidecar e dei permessi da consegnare in albergo. Ancora un ultimo controllo e la sbarra si alza; siamo liberi!

LA BIELORUSSIA


Fa caldo, siamo assetati e dobbiamo riordinare i bagagli, facciamo poco più di un chilometro lungo una strada deserta quando incontriamo un negozio di alimentari, è il posto giusto per fermarsi. Non è proprio un negozio come noi lo immaginiamo, bensì una casetta con una piccola porta che accede in una stanza, dove sulle delle scansie in ferro ci sono scatole di cibo, una cassetta di verdure, un pezzo di pane, del formaggio in pacchetti, delle bottiglie di vodka e un frigo con delle birre; a custodia di tutto ciò c’è un’anziana donna. Prendiamo due birre e chiediamo di aprire le bottiglie, ma la padrona di casa mi fa vedere che è senza denti, così capisco che quello è l’unico sistema per aprirle. Mentre usciamo arriva un’automobile modello Lada anni settanta, da cui scendono un uomo e una bambina e mostrando una cassetta d’uova danno iniziano alle trattative con la proprietaria del negozio. Mentre le parti in discussione raggiungo un accordo, la bambina si avvicina a noi e dice delle parole in Bielorusso, io gli rispondo: “Non capisco, sono Italiano”, così lei, stupita dal nostro strano linguaggio, ride e scappa dal papà e poi, aggrappata alla sua giacca, ci indica con il dito. Con mezzi di fortuna stappo le bottiglie di birra e il primo sorso scende lungo la gola come un fiume che bagna una terra arsa. Tutto ora è in ordine, abbiamo più di trecento chilometri di autonomia e dovrebbero bastarci per raggiungere nella foresta la dacia che abbiamo prenotato. Riprendiamo il viaggio e quasi incredulo esclamo: “Siamo in Bielorussia!” e subito il paesaggio cambia. La strada dritta, con lievi saliscendi, attraversa le coltivazioni di granoturco che si estendono a perdita d’occhio, interrotte, dopo molti chilometri, da un’unica grande azienda agricola dove si raccolgono, s’immagazzinano e si trasformano i prodotti di quelle immense colture. Poco lontano sorge un piccolo paese fatto di case di legno, recintate da una bassa staccionata dai colori sgargianti e sul ciglio della strada pascolano tranquilli cavalli, asini e mucche. La strada s’ inoltra nell’antica foresta e il navigatore satellitare deve condurci fino a “Agrousad’ba U Leshego”, dove abbiamo prenotato la dacia, ma questa località è sconosciuta al nostro strumento, allora impostiamo la ricerca verso l’ abitato più vicino e la scelta cade su Tushemlya. Forse ci siamo spinti troppo a nord e il navigatore c’invita a girare verso ovest, così, ritorniamo ad avvicinarci al confine con la Polonia. La strada diventa prima sterrata, poi fangosa e sabbiosa; ci stiamo inoltrando nel cuore della Belavezhkaja Puscha. Abbiamo percorso già troppi chilometri, tra buche, polvere e schizzi di fango, per continuare a seguire le indicazioni del navigatore che pare voler portarci a vistare tane di volpi, piuttosto che a una meta urbana. Dopo aver evitato tassi e cervi, che se ne fregano delle precedenze, ci troviamo di fronte a un cartello scritto in cirillico che potrebbe essere Tushemlya. Il villaggio è fatto di sole quattro case azzurre poste su un quadrivio e mentre noi non riusciamo a capire dove ci troviamo, passa un uomo, che trattenendo a fatica la sua mucca con uno spezzone di corda, si avvicina con la buona intenzione di aiutarci. Gli mostro sulla carta geografica la nostra meta e lui ,con il dito, segna una strada, poi dà inizio alla spiegazione in lingua bielorussa. Non avendo capito le istruzioni ringraziamo e decidiamo di proseguire dritti come da indicazione del nostro navigatore. Appena usciti dal paese la strada si trasforma in un sentiero invaso da erba e arbusti, guadiamo anche un piccolo corso d’acqua e, nel fitto del bosco, ci troviamo davanti a una strada resa inaccessibile da una recinzione, una sbarra e una casetta in legno da cui esce una corpulente signora in divisa militare, con tanto di mostrine e medaglie, che, nuovamente, ci spiega in Bielorusso come raggiungere la dacia e, viste le nostre facce, entra in casa ed esce con in mano un foglio dove ha scritto, in cirillico, l’elenco delle località da attraversare, nel frattempo il satellitare insiste: “ mancano tre chilometri alla vostra meta”. Solo ora, scrivendo di questo viaggio, ho capito che il navigatore aveva ragione, ma avremmo dovuto attraversare a piedi una zona d’interesse militare, che s’inoltrava nel bosco a ridosso della linea di confine. Dopo molti tentativi non abbiamo ancora capito dove andare perché c’è un evidente conflitto tra le lunghe e incomprensibili indicazioni della gente del posto e la vicinanza della meta indicata dal navigatore, così decidiamo di tornare indietro imboccando altri sterrati e sentieri, mantenendo una direzione che sembra non allontanarsi dalla nostra meta, ma continuiamo a incontrare sbarre e recinzioni, che ci distanziano sempre di più dal nostro punto d’arrivo. Alle cinque della sera stiamo ancora vagando tra boschi e paludi e ci rendiamo conto di essere ormai lontani da Agrousad’ba U Leshego”, per cui non c’è altra possibilità che abbandonare questo labirinto di viottoli e ritornare sulla strada asfaltata, che conduce alla città di Vawkavysk. Lasciato alle spalle il bosco, davanti a noi sorge una cittadina industriale, fatta di alti palazzi grigi e tutti uguali, attraversata da larghe e dritte strade, che tagliano perpendicolarmente i quartieri per poi convergere in una grande piazza sovrastata dalla statua in bronzo di Lenin. È in questa piazza che si svolge la vita dei cittadini. Nella zona verde giocano i bambini, poi c’è la palestra, il cinema e un centro ricreativo con fast food, che funziona anche da sala da ballo. Chiediamo a un passante dove pernottare e questo, senza parlare, ci fa segno di seguirlo fino a un fabbricato, che sembra ancora inutilizzato, ma, suonando il campanello arriva solerte il custode, che dopo un’elaborata compilazione di questionari, per pochi rubli ci consegna le chiavi di una stanza . Dopo esserci tolti la polvere di dosso, riprendiamo il sidecar e ritorniamo nella grande piazza per cenare al fast food. Il locale sembra di più a una palestra, che a una sala da pranzo, i tavoli sono disposti a cerchio vicino ai muri, al centro c’è un grande spazio dove dei bambini giocano a rincorrersi e all’entrata - c’è un piccolo bar, che espone la pubblicità di hamburger e Coca Cola e una lista di panini in stile Mac Donald. La ragazza al banco non parla italiano e neppure inglese, così segnando insistentemente con il dito il disegno di un panino sul tabellone, cerco di far capire, che sia io che Rossana desidereremmo un cheeseburgher e una Coca Cola, ma non c’è niente da fare, la ragazza ride e finge di cancellare con la mano le scritte sul menù, poi chiama una collega che, stentatamente in inglese, ci spiega che quel menù è li per bellezza e non ha a che fare con il loro vero menù. Seduti ad un tavolo sbirciamo che cosa hanno ordinato i frequentatori abituali ed escludendo la specialità, Pizza Italiana, scegliamo una zuppa di rape rosse che sembra vino, poi pollo e patatine. I nostri abbondanti piatti sono serviti, mentre nella sala irrompe il brano “Toxic” di Britney Spears. La nostra prima cena in Bielorussia può sembrare un po’squallida, ma io resto comunque affascinato da come questo luogo, dall’austero aspetto sovietico, si lasci sfiorare dai miti dell’occidente.

Diciannove agosto – alla ricerca della dacia.

Oggi dobbiamo assolutamente trovare la dacia nel bosco e non dovrebbe essere difficile, perché dalle indicazioni del navigatore mancano una sessantina di chilometri. Riprendiamo il nostro viaggio e dopo una ventina di chilometri ci ritroviamo sulla strada sterrata nel fitto del bosco, il nome del primo paese che incontriamo è scritto in cirillico: “Девятки” e la strada finisce qui, dove dei turisti russi stanno acquistando delle mele. La signora più anziana del gruppo si rende disponibile ad aiutarci, così con il foglio della prenotazione telefona al proprietario della dacia, dandoci la spiegazione in fluente lingua russa. Credo di aver capito che dobbiamo tornare sulla strada asfaltata e procedere dritti per una ventina di chilometri, poi girare a sinistra in una strada di campagna e, anche se il navigatore ci consiglia di tornare indietro, proseguiamo seguendo l’indicazione dataci dai Russi, sperando che il nostro strumento elettronico si ravveda conducendoci alla meta. Percorsi circa venti chilometri cerchiamo di capire in quale strada dobbiamo girare, ma le indicazioni non corrispondono alla carta geografica e il navigatore non sa più dove andare, così imbocchiamo uno sterrato che sembra rientrare nel bosco verso sud. Percorriamo un tragitto disseminato di pozze fangose e zone sabbiose dove le ruote del sidecar affondano, alla fine ci troviamo tra quattro case sperdute nel bosco, dove però c’è un negozio di alimentari e noi, sconsolati di esserci nuovamente persi, facciamo una sosta. Mentre seduto su una pietra sto scolando una birra, si avvicina un signore, che si arrangia con l’inglese e mi sembra un miracolo. Gli spiego dove vorremmo andare e, dopo alcune spiegazioni, mi rendo conto che anche lui non riesce a trovare la nostra destinazione, scuote la testa e mi restituisce la carta geografica, poi fa un cenno che non capisco se significa: “Mi dispiace, vi saluto” oppure: Aspetta che mi informo”. Adesso sono davvero demoralizzato e comincio a valutare la possibilità di abbondonare la nostra meta per dirigerci verso Minsk, ma proprio in quel momento quel gentile signore esce dal negozio e salendo in auto ci invita a seguirlo. Appena usciti dal paese riprendiamo la strada asfaltata e ho l’impressione di andare nella direzione opposta a quella della nostra meta. Infatti, dopo aver percorso una quarantina di chilometri, il navigatore indica che ci siamo allontanati dalla nostra destinazione di settanta chilometri, allora comincio a preoccuparmi pensando: “Avrà capito dove dobbiamo andare? Non avrà invece intenzione di portarci in qualche altro luogo dove lo aspettano i suoi compari per rapinarci? Nessuno farebbe tutti questi chilometri per fare un favore a degli sconosciuti, forse è meglio deviare e abbandonarlo, o almeno nascondere soldi e documenti”; poi, a rincuorarmi, arriva la notizia da parte di Rossana: “Il navigatore dice che siamo sulla strada giusta e mancano trenta chilometri alla destinazione.” La strada ora si stringe e s’inoltra in un bosco umido, dove i raggi del sole faticano a filtrare tra le fitte chiome delle altissime querce. Ancora pochi chilometri e, in fondo alla strada, dietro a una palizzata di legno, troviamo la nostra dacia circondata da un giardino fiorito.

LA DACIA NEL BOSCO – Belavezhkaja Puscha –

La nostra guida scende dall’auto e il padrone di casa apre un portone di legno massiccio, i due scambiano alcune parole poi si stringono la mano; io guardo incredulo quello sconosciuto, che ha percorso più di settanta chilometri per accompagnarci e non vuole nulla in cambio e un po’mi vergogno di aver pensato male. Non facciamo in tempo a scaricare i bagagli, che il proprietario della dacia comincia ad assillarci con la documentazione da compilare. Sia Rossana, che io abbiamo sete e una gran voglia di indossare pantaloni corti e maglietta, ma, a quanto pare, la burocrazia ha il sopravento, così in tenuta da moto cominciamo a compilare moduli di transito e di stazionamento, allegando copie dei documenti rilasciatici in frontiera. Finalmente abbiamo finito e possiamo scolarci una bottiglia d’acqua a testa e in abiti leggeri passeggiare per il fioritissimo giardino di questa casetta in legno, scoprendo anche l’esistenza di una sauna. Seduti all’ombra di un pruno chiacchieriamo con il proprietario che sa parlare in spagnolo e beviamo birra spiluccando del pesce essiccato, che Vladimir, così si chiama il padrone della dacia, spiega di aver pescato nel suo stagno. Durante la cena a base di uova, cavolo nero e vodka, chiacchieriamo con Vladimir, che ci racconta di essere sposato e di avere una figlia, ma che la sua famiglia vive a Hrodna, una cittadina a circa centotrenta chilometri da Agrousad'ba, a lui, però, non va di vivere in città e, siccome soffre di un grave scompenso cardiaco, si sente più tranquillo nel mezzo della foresta, la moglie, poi, lo raggiunge ogni weekend e Vladimir le prepara la sauna bollente e il tè alle erbe disintossicanti. Racconta anche di quell’’inverno e della neve, che coprì la dacia fino al tetto e dei bisonti che si avvicinavano alla casa cercando il fieno. Nell’avvicendarsi delle chiacchiere gli chiedo se è al corrente dell’incidente nucleare accaduto l’otto agosto in Russia nella provincia di Arkhanglesk sul Mar Bianco nella città di Severodvinsk, ma non ne sa nulla e neppure giornali e televisione ne hanno parlato, poi mi chiede se con il mio telefono cellulare posso collegarmi ad internet per avere notizie sui fatti. Prima d’andare a letto faccio sosta in gabinetto e devo ben ricordare, che la carta igienica non si può buttare nella tazza a pena di una lunga e fetida operazione di disintasamento manuale del cesso. Dormiamo in una piccola stanza con un grande letto, infilati sotto il piumone, mentre fuori si sente scrosciare la pioggia.

La mattina ci sveglia un raggio di sole, che s’infila tra la tenda e il cuscino. Sono le sette del mattino e sentiamo Vladimir che armeggia in cucina per prepararci la colazione. “Dobraj Ranicy”, e noi rispondiamo buongiorno anche a te. Sul tavolo ci sono uova, verdura e una pietanza che assomiglia ai nostri: “cjarsons” fatti con una pasta di farina e patate, poi riempiti di erbe, verdure e altri contrastanti aromi dolci. Con le scarpe da trekking già indossate, prepariamo gli zaini e ci mettiamo dentro anche panini e birra, quando è tutto pronto Vladimir ci accompagna in auto fino all’entrata della foresta, ma qui il cancello non si apre e, come in un storia già vissuta, dalla guardiola esce la soldatessa in tenuta verde, con mostrine e medaglie che con fare autoritario ci impedisce l’ingresso; ma il nostro ospite non si arrende e a quanto pare conosce persone influenti, perché fa una telefonata e passa il cellulare alla guardiana, la quale senza proferire parola si precipita ad aprire il cancello, . Ci rendiamo conto di aver ottenuto un grande privilegio, perché questa zona è interdetta alle visite turistiche. Siamo pronti, zaino in spalla, mentre Vladimir ci saluta e raccomanda di tenere sempre pronti i documenti e la carta di pernottamento presso la sua dacia, tornerà a prenderci verso sera. Il portone si chiude alle nostre spalle, ora siamo soli nella foresta, unici turisti in visita. Dobbiamo procedere per sei chilometri lungo questa strada che risulta essere proprio quella che ci fu vietata due giorni fa mentre vagavamo con il sidecar. Le indicazioni che Vladimir ci ha lasciato scritte su un foglio spiegano che, dopo la scarpinata di sei chilometri, troveremo un cartello per l’entrata nella zona della riserva ecologica del bisonte europeo. Proseguendo verso la nostra meta capiamo che le recinzioni e i posti di guardia, più che proteggere l’integrità della foresta, servono a presidiare la carreggiata, che seguendo il confine con la Polonia è l’ultimo baluardo difensivo verso l’occidente capitalista. Abbiamo i piedi bollenti e le gambe stanche, quando finalmente troviamo il cartello con il disegno del bisonte e da qui, abbandoniamo la strada maestra per inoltrarci nel fitto del bosco. Continuiamo il nostro cammino su un letto di foglie e fango fino a una capanna fatta di vimini intrecciato, da dove si può osservare senza essere visti. Sappiamo che in questa foresta oltre al bisonte vivono lupi, orsi, linci, cervi e un’innumerevole quantità di anatre e oche, ma non è facile incontrarli perché la foresta si estende su sette milioni di ettari, bagnati da diecimila laghi. Nulla si muove nel bosco, allora procediamo lungo un sentiero che ci conduce fino ad una antica quercia dal tronco cavo tanto grande da poterci entrare, poi sentiamo picchiettare e individuiamo, aggrappato alla corteccia di un pino rosso, un grande picchio nero e poco più su un altro più piccolo picchio rosso. Guardando bene tra i tronchi putrescenti scorgo uno scarabeo eremita e una rosalia alpina, ma del bisonte ancora non c’è traccia. Non so quanto abbiamo camminato prima di ritornare al capanno di osservazione, ma di certo il tempo è volato e dobbiamo tornare sulla strada principale dove ci aspetta un’altra sgambata di sei chilometri prima di arrivare all’entrata della foresta. Al cancello è cambiata la guardia, ma si tratta sempre di una donna in divisa verde e mostrine, che vedendoci arrivare telefona a Vladimir per venirci a prendere. Nell’attesa ci sediamo su una panca, mi tolgo le scarpe e con le gambe distese e i piedi al vento mi sento rinascere, poi osservando il pascolo al limite del bosco di betulle vedo in lontananza una macchia scura, prendo la macchina fotografica con il teleobiettivo sperando di aver individuato un bisonte, ma invece è un cervo che lentamente pascola.

Vladimir arriva e in pochi minuti ritorniamo alla dacia dove ci aspetta una sorpresa, la sauna è accesa. Il tempo di spogliarmi, avvolgermi in un lenzuolo bianco, indossare uno cappello di lana cotta a forma di cono, che sembra quello di Pinocchio, e mi trovo dentro questo forno a legna, con in mano un fascio di rami di betulla per fustigarmi, mentre sudo e arrostisco. Un quarto d’ora di calore e scudisciate, poi esco a sorseggiare un infuso d’erbe disintossicanti e questo rito va ripetuto almeno tre volte, fin quando la pelle è arrossata e non se ne può più, allora è necessaria una doccia gelida tanto da provare la sensazione di aver infilati mille aghi nella pelle. La sauna mi ha fatto bene, non sento più la stanchezza, le gambe non sono più pesanti e i piedi potrebbero ricominciare a camminare, ma dopo cena sprofondo nel letto sognando il grande bisonte, che mi osserva da vicino.

21 Agosto 2019

seconda parte Minsk

È la mattina dei saluti e il pesante portone di legno si riapre. Il nostro viaggio ricomincia, abbandoniamo boschi e campagne ancora avvolti nell’umida mattina, per raggiungere la capitale della Bielorussia. Oggi sarà più facile trovare la strada principale che, per trecentoventi chilometri, ci porterà a Minsk. La prima sosta arriva ad ora di pranzo a Baranavichy, per rifocillarci in un bar ristorante con una bistecca e verdura, poi pieno di benzina e qualche foto al treno a vapore sovietico. Avvicinando a Minsk la vita cambia, da prima una triste periferia fatta di piccole e povere case, poi iniziano i palazzi popolari e verso il centro i grandi grattaceli. Negli anni sessanta, quando il pensiero marxista-leninista sembrava la cura perfetta per una società capitalista malata di divari sociali e forti tensioni popolari, m’immaginavo l’Unione Sovietica come un luogo impenetrabile, difeso da barricate ideologiche, dove il popolo viveva senza competizione economica e ogni “Compagno” non doveva preoccuparsi del futuro, perché il partito avrebbe pensato a lui e alla sua famiglia, senza ostentazioni, rendendo ogni individuo economicamente uguale agli altri, mentre la diversità riguardava la personalità, l’intelletto e non il potere d’acquisto. In definitiva, un mondo ordinato, pulito, onesto e basato su valori diversi dal consumismo. Oggi il divario tra le campagne, le periferie e la città è fin troppo visibile, le piccole case fatte di legno colorato, con il tetto in eternit e la mucca legata al bordo della strada, sono l’immagine di una parte di popolazione che vive come cent’anni fa, senza contatti con il nuovo mondo globalizzato, mentre la città, fatta di grattaceli e auto lussuose ferme nell’ingorgo del traffico del centro, assomiglia alle grandi metropoli mondiali. Con mio grande stupore, non ho ancora incontrato un vero sovietico sidecar URAL, bensì americanissime Harley Davidson e velocissime Ducati Diavel, guidate da “Rider” alla moda impegnati in esibizioni di ricchezza e benessere sociale. Mentre percorriamo il grande viale a sei corsie che porta in centro di Minsk, le auto sfrecciano superandoci in una danza di cambi di corsia, trasformando il traffico in un gioco di abilità all’ombra dei palazzi alti quaranta piani.

Minsk è sempre stata al centro di lotte etniche, politiche e religiose, che hanno distrutto la sua storia e oggi è rinata moderna, senza tracce del passato. Abbandoniamo la strada principale che attraversa la città, per dirigerci verso l’hotel Buta, ma un groviglio di sensi unici ci costringe a fermarci nel parcheggio della chiesa rossa dedicata ai santi Simone ed Elena. Scopriremo poi che questa chiesa è stata eretta nel primo Novecento con il finanziamento di Edward Woynillowicz, un potente uomo politico, che volle dedicare la chiesa ai suoi due figli Helena e Szymon morti in giovane età. L’Hotel è dietro la chiesa e raggiungerlo a piedi è facile, ma con il sidecar ricominciamo a perderci nel labirinto dei sensi unici senza raggiungere la meta, finché, cambiando itinerario, ci troviamo proprio davanti. Nella hall uno splendore di lampadari di cristallo ci abbaglia e, ad accoglierci, delle sorridenti ragazze che parlano anche in Italiano. Di fronte all’ingresso del sontuoso ristorante, una porta con i vetri opachi si apre verso le stanze del casinò. Sul divanetto con le spalliere dorate, un uomo in abito elegante, ma ormai sciupato, tiene la testa tra le mani mentre una giovane ragazza prova a consolarlo. Ha giocato senza smettere perdendo tutto ciò che aveva, ma un debole sorriso nasce sul suo volto quando le ultime tre fiches, che rigira nervosamente tra le mani, cadendo a terra, mostrano il loro valore in rubli in ordine crescente, è un segno, forse la fortuna adesso è dalla sua parte e non è ancora tutto perso. L’ascensore sale all’ultimo piano, sfiorando uno ad uno i lampadari in cristallo di Boemia, fino alla stanza quattrocento dodici, la nostra. La stanza non tradisce lo stile dell’hotel e dall’alto il panorama si amplia su tutta la città, mentre il nostro sidecar parcheggiato laggiù, davanti all’ingresso, sembra un piccolo e lucido insetto nero circondato da curiosi. Davanti all’Hotel, oltre il semaforo, inizia una zona pedonale dove la passeggiata è una sfilata di giovani ragazze e ragazzi vestiti alla moda, dall’aspetto felice di chi vive ogni notte una festa. Lungo la strada ristoranti e bar in cui sedersi per guardare ed essere guardati e sul tavolo un bicchiere di vino da raffinato intenditore. Le umide notti della foresta e le strade solitarie tra i campi di grano sono ormai lontane, la città è vestita a nuovo, mentre le risate e lo scalpiccio dei tacchi a spillo avvolge il passante nella frenesia di una vita nuova, piena di desideri e progetti; lungo questa strada sembra che del comunismo non sia rimasto nulla.

22 agosto 2019

Il giorno seguente, camminando verso l’isola delle lacrime, lungo il viale Vulika Niamiha incontriamo un gran traffico di gente e automobili e, nonostante ci vivano due milioni di persone, per terra non c’è neppure un mozzicone di sigaretta o una carta sfuggita a un passante, è tutto perfettamente pulito e altrettanto linde sono le facciate dei palazzi. Attraversando il ponte sul fiume Svislač, vediamo una città moderna e suggestiva, fatta di grattacieli e parchi; poi, nella città vecchia tra le case tirate a nuovo e risalenti a non prima degli anni Cinquanta, troviamo una biblioteca dove si vendono vecchi libri e gadget. Curiosando tra volumi impolverati, Rossana trova un libro di cucina stampato in cirillico, con dedica e annotazioni scritte chissà da chi. Proseguiamo il nostro cammino fin dove, l’isola delle lacrime racconta dieci anni di guerra in Afghanistan dal 1979 al 1989. Il quindici febbraio di ogni anno i veterani della guerra s’incontrano su quest’isola per commemorare la ritirata delle truppe sovietiche dall’Afghanistan e, con la fine della guerra, il ritorno a casa dei soldati bielorussi. Una scritta apposta su un masso all’ingresso dell’isola ricorda che furono le madri dei caduti a erigere questo monumento, perché il male non potesse più dominare la loro terra, né qualunque altra terra. Al centro dell’isola c’è un tempietto dalla forma slanciata, contornato da statue forgiate in bronzo, alla maniera del realismo socialista, raffiguranti le madri afflitte, poco più avanti un angelo in pietra piange e le lacrime, come una fontana, riempiono il lavatoio. Oltre il fiume sorgono grattacieli di vetro, bianchi palazzi dalle linee squadrate e maxi schermi pubblicitari che colorano la città di lampi di luce. Vagando senza una meta ci troviamo di fronte ad un palazzo di un debole colore giallo, è la sede dei servizi segreti del KGB, la nostra camminata prosegue per raggiungere la Piazza Lenin seguendo il viale Vulica lienina. Oltre che perfettamente pulito e imbiancato a nuovo, tutto è immensamente grande, i viali del centro a sei corsie sembrano non aver fine, i palazzi di stile sovietico fanno a gara per chi è più alto e imponente, poi arriviamo nella Piazza Lenin, che è davvero enorme. La prima cosa che incontriamo è una fontana dal colore azzurrino sovrastata dalla scultura in bronzo di due cicogne mentre spiccano il volo. Superata la fontana, la piazza diventa ancora più grande e al centro si erge la statua in bronzo di Lenin, contornata da alti palazzi bianchi dalla forma squadrata; linee rette ed essenziali che si stagliano sul cielo azzurro.

Il conta passi di Rossana dice che abbiamo camminato per più di dieci chilometri, così decidiamo di avviarci verso l’albergo. Raggiunta la chiesa rossa ci fermiamo a riposare tra la statua di San Michele e la Campana di Nagasaki, posta in memoria delle vittime dei bombardamenti atomici dell’ultima guerra mondiale. Seduto sotto la campana, mentre aspetto che i miei piedi, prigionieri di questi vecchi sandali, si riprendano dalla scarpinata, cerco di ricordare dove in Italia ci siano monumenti in ricordo della strage nucleare avvenuta in Giappone nei giorni sei e nove agosto del1945, ma non mi torna in mente neppure una lapide in memoria degli oltre duecentomila morti, solo un breve paragrafo scritto sul libro scolastico di storia che chiudeva il capitolo sulla seconda guerra mondiale. Che cosa passò per la mente di Claude Robert Eatherly, pilota del bombardiere Americano B-29 l’attimo prima di sganciare la bomba? Vide sparire Hiroshima dentro una nube radioattiva e mai più riuscì a cancellare quell’orrore insopportabile dai suoi occhi. Si è fatta sera ed è ora di cercare quel ristorante tipico che ci ha consigliato il portiere dell’hotel. Riprendiamo a camminare lungo il viale Karl Marx, dopo una mezz’ora passiamo davanti allo stadio e abbiamo l’impressione di esserci persi. Dopo varie indicazioni e scorciatoie, quando ormai non capiamo neppure dove siamo, incontriamo il nostro salvatore, un’elegante signore in abito blu che parla fluentemente in inglese, non conosce il ristorante, ma, cellulare alla mano, riesce a fornirci precise indicazioni, poi ci sente parlare e si rivolge a noi in perfetto italiano precisando alcune informazioni riguardanti la strada più corta da seguire. Resto stupito e affascinato dai suoi modi gentili e da come parli diverse lingue senza inflessioni, tanto da non capire la sua nazionalità; allora chiedo se è italiano, mi risponde di essere bielorusso nato a Minsk, ma di aver lavorato per alcuni anni in Vaticano e poi all’ambasciata di Londra. Ci salutiamo e mentre se ne va con passo spedito e la borsa in pelle ben stretta in mano, io e Rossana ci diciamo: “Questo è un pezzo grosso, sarà un ambasciatore, o forse (dei) servizi segreti”. In fondo alla strada c’è il ristorante, ci sediamo all’aperto e ordiniamo subito un boccale di birra alla spina Krynica, prodotta dall’azienda di stato e considerata una bevanda democratica, perché adatta a tutti gli strati sociali, poi arrivano due piatti colmi di draniki, delle frittelle di patate e cipolle, con aggiunta di farina, uova, aglio, carote, funghi e pancetta, poi serviti con panna acida e, per finire, due bicchieri di vodka Belaya Rus. Si è fatto buio e le nostre gambe sono stanche di camminare, così chiamiamo un taxi per ritornare in albergo, dobbiamo riposare perché domani il nostro viaggio proseguirà verso il confine della Russia.

La chiesa rossa
La chiesa rossa
La campana di Nagasaki
La campana di Nagasaki
L'isola delle Lacrime
L'isola delle Lacrime
Palazzi popolari sul fiume Svislac
Palazzi popolari sul fiume Svislac
Fontana
Fontana
Piazza Lenin
Piazza Lenin
Lenin

LA FRONTIERE RUSSA

Terza parte

23 agosto 

È l’ora di lasciare le raffinatezze dell’hotel Buta e di caricare i bagagli sul fedele sidecar, per far rotta verso la Russia. Prima di uscire l’addetta alla reception mi rassicura che con il nostro visto possiamo attraversare il confine di Arkhipovka (Архиповка) e che non dovremo sottoporci a estenuanti controlli, perché Bielorussia e Russia sono paesi amici. Partiamo fiduciosi convinti ad attraversare la sterminata pianura Bielorussa, per trecento chilometri e poi proseguire il viaggio in territorio russo. Usciti da Minsk la strada costeggia l’aeroporto dove un mastodontico areo Antonov sta decollando, poi ricomincia l’aspetto più antico e bucolico della Bielorussia. Trecento chilometri e la strada s’allarga a quattro corsie, passaporti alla mano siamo pronti a varcare il confine con la Russia, ma un gentile soldato ci ferma prima della frontiera, osserva i passaporti e ci comunica la peggior notizia: “da qui i turisti in Russia non possono entrare” e riusciamo a capire anche che, se proviamo a proseguire fino alla dogana, saremo multati per settecento euro. Era vero quello che il camionista aveva scritto su face book, è accaduto che il governo Russo non ha gradito l’apertura al turismo della Bielorussia ed ora, con la scusa del terrorismo, blocca i turisti provenienti da Minsk. A me, infatti, sembra più un dispetto, che una ragionevole protezione dai rischi del terrorismo. Il gentile soldato con carta e matita ci spiega che se vogliamo entrare in Russia dobbiamo farlo dal confine con l’Ucraina e con carta e matita alla mano ci disegna il percorso da seguire fino a Vyesyalowka (Весялоўка) per circa quattrocento ottanta chilometri, poi vista la nostra espressione contrariata, sorridendo ci fa capire di essersi sbagliato “I chilometri saranno circa quattrocento venti”, ci torna i passaporti, ci invita a fare inversione e se ne va. Sono quasi le due del pomeriggio e ci mancano ancora sei ore di viaggio, è tutto da rifare, inoltre domani è l’ultimo giorno del visto e se non usciamo dalla Bielorussia come minimo dovremo pagare una salatissima multa. Così riprende il nostro viaggio tra le grandi pianure coltivate e boschi di pino rosso. Sono le sette di sera, oggi abbiamo percorso quasi settecento chilometri, non manca molto al confine Russo, ma non sappiamo esattamente dov’è, e cosa ci aspetta alla dogana, siamo anche stanchi e affamati, per cui decidiamo di pernottare nel primo hotel che incontriamo. Nei pressi di Homel troviamo una grande struttura dall’aspetto trasandato e che assomiglia di più a un centro di recupero detenuti, che a un hotel per turisti, comunque, nei dintorni non c’è altro, quindi parcheggiamo il sidecar nella grande piazza antistante, con al centro l’immancabile statua di Lenin, la fontana e un parco con la passeggiata sul fiume Soz’. Dietro il banco dell’accettazione due giovani e biondissime bielorusse non capiscono un accidente di quello che gli chiedo, ridono e mi fanno degli incomprensibili segni, ma una sola cosa è chiara, che in questo enorme casermone non c’è una stanza libera. Davanti al sidecar si è fermata una famigliola, che chiacchiera con Rossana rimasta li a guardia, finalmente qualcuno che parla inglese e che ha già spiegato a Rossana, che il casermone è diviso in due reparti, quello dove sono entrato io fornito di cure termali e l’altro dove poter pernottare per una notte. Mentre il resto della famiglia resta a chiacchierare con Rossana, il signore bielorusso mi accompagna alla reception dell’hotel per tradurre la mia semplice richiesta riguardante una camera per la notte. Questo lato del dormitorio è ancora peggio dell’altro, ma almeno costa pochi rubli. Sono le otto di sera e siccome siamo a digiuno dal mattino andiamo a cercare qualcosa da mangiare, però qui non esistono ristoranti, troviamo solo una baracca che fa della carne alla griglia e vende bottiglie di birra o di vodka, però è tardi e la griglia è spenta e se proprio vogliamo mangiare possono servirci degli spiedini avanzati da riscaldare. Ci accomodiamo su delle sedie in plastica e un tavolino di metallo, mentre un gruppo di anziani Bielorussi si sfida a braccio di ferro, hanno le facce paonazze, il sudore sulla fronte e il loro tavolo scricchiola, poi si piega, coinvolgendo le bottiglie di vodka mezze scolate che traballando e tintinnando rovinano a terra frantumandosi e inondando con l’alcolico liquido il pavimento. Siamo gli unici turisti stranieri, pesci fuor d’acqua tra le maestranze bielorusse, che in questo centro passano le loro vacanze per curarsi e ritemprarsi dal faticoso lavoro della fabbrica.

24 agosto

Un raggio di luce filtra tra le tende della nostra stanza mettendo in risalto la povertà degli arredi e la polvere, mai ripulita, che li ricopre. Alla reception c’è un viso nuovo, una rubiconda signora che parla un po’ d’Italiano. Finalmente possiamo esternare i nostri dubbi sulla possibilità di entrare in Russia e chiedere informazione su come arrivare al confine aperto. Purtroppo la nostra interlocutrice non ha notizie e non ha mai varcato la frontiera con la Russia, però suo padre conosce bene il territorio è saprà darci le giuste istruzioni. L’anziano padre apre la nostra carta geografica, che però non è scritta in cirillico, allora la figlia lo aiuta a interpretare la nostra scrittura e dopo lunghi chiarimenti e qualche contrasto sulle strade da percorrere, sembra pronto a darci le giuste istruzioni. Purtroppo la figlia non è in grado di tradurre tutto quello che il padre vorrebbe dirci per cui dispiaciuta dice: “Parlo poco Italiano”, ma ecco che arriva una nuova idea: “Chiamo mia mamma, lei è a Pescara, Italia, lei è badante e parla tutto Italiano” , così inizia il passa parola e scopriamo che il luogo che dobbiamo raggiungere dista poco più di settanta chilometri ed è chiamato: “Three Sisters”, che così si scrive in cirillico: “Три Сестры" , è il monumento sui confini dedicato alle tre sorelle, la Bielorussia, l’Ucraina e la Russia. Inseriamo l’itinerario nel navigatore e dopo che il padre l’ha controllato, ci dice qualcosa in bielorusso ridendo, che la figlia prontamente traduce: “È una grande frontiera, anche un americano può passare!”.

RUSSIA

La Frontiera

( il generale spara bottoni)

La strada non è delle migliori, ma è asfaltata e non c’è traffico, viaggiamo tranquilli attraversando boschi, campi coltivati e gli ultimi paesini della Bielorussia, poi ci troviamo in una grande rotonda con in mezzo il monumento delle tre sorelle con, alle spalle, la Bielorussia, a sinistra l’Ucraina e, dritti, il confine con la Russia. Sono da poco passate le dieci del mattino, siamo in frontiera, non ci sono portoni chiusi, bensì una lunga ed immobile coda d’auto divisa in tre corsie. Ci accodiamo e con una rassegnata calma aspettiamo, nessun veicolo si muove, ma vediamo un frenetico entrare ed uscire dagli uffici e code di persone a degli sportelli della dogana. Non capiamo cosa dobbiamo fare, fin quando una signora russa, che odora di aglio, ci fa capire che non dobbiamo restare fermi ad aspettare, bensì dobbiamo recarci al primo ufficio a ritirare alcuni moduli da compilare. Un po’spaesati chiediamo quale siano i primi moduli da compilare e in nostro aiuto arriva un corpulento militare, con la divisa mimetica troppo stretta e i bottoni pronti a staccarsi per partire come proiettili. “Italiani!” esclama e come altrove si meraviglia, che degli Italiani siano arrivati fino in Russia con un sidecar URAL, poi si ferma a osservare con attenzione il motore scoprendo tutte le differenze con il sidecar che lui conduceva durante la guerra in Afghanistan. Ci ha presi in simpatia, così ci procura i primi moduli da compilare rigorosamente scritti in cirillico. Non è possibile intuire quello che dobbiamo scrivere negli spazi bianchi e questo lo capisce anche la signora Russa che ci aveva consigliato di andare alla ricerca di questi incomprensibili moduli, allora, vista la difficoltà, raduna un capannello di consulenti Bielorussi, Ucraini e Russi, che in diversi idiomi ci danno istruzioni sempre ed ugualmente incomprensibili, finché un’altra signora, che qualche parola d’inglese la sa, si fa consegnare i nostri documenti e riempie le righe bianche, ma il gruppo di consulenti non è d’accordo e dà indicazioni assolutamente discordanti alla volonterosa signora. Con una decina di fogli in mano, il passaporto e i documenti della moto mi metto in coda al primo sportello, ma quando arriva il mio turno l’addetto, guardando il lavoro fatto, esclama: “Ah, Andrej, Andrej!” e strappa i moduli facendosi riconsegnare tutti i miei documenti e in meno di mezzora rifà tutto, mentre la coda alle mie spalle sbuffa ed è solo l’inizio. Ora mi trovo senza i miei documenti e con un foglio in mano, sempre scritto in cirillico, ma pieno di timbri, devo passare al secondo sportello e nuovamente si riunisce il gruppo di esperti per aiutarmi nella compilazione. Due ore sono volate e ancora tutto ciò che avevamo fatto è sbagliato, solo un foglio passa indenne, il resto finisce nel cestino. Nel frattempo la coda di automezzi non si è mossa di un passo, al controllo bagagli c’è un furgone con otto persone che scaricano elettrodomestici, tra cui una lavatrice e dei condizionatori d’aria a pompa di calore, mescolati a vestiti e generi alimentari. Questa storia della compilazione dei modelli va avanti per ben quattro uffici, fin quando, finalmente, mi trovo con in mano un pacco di carte, con firme e timbri da consegnare al controllo della dogana. Spingo avanti il sidecar, con le ruote millimetricamente disposte una di qua e l’altra di là della griglia per l’osservazione del mezzo da sotto, poi apro tutti i bagagli e distendo i vestiti e le attrezzature da camping su dei tavoli predisposti per il controllo. Arriva il corpulento militare, che mi aveva accolto e noto che un bottone della camicia è già stato sparato, è contento di vedermi e, dando solo un’occhiata alla piccola action camera, ridendo dice “Svet - шпион?” che da quel che mi sembra di aver capito significa: “Spia?”, poi mi dà una pacca sulla spalla e mi dice di ricaricare il sidecar e di recarmi all’ennesimo ufficio. Manca poco alle cinque di sera e ho ancora un ufficio da affrontare. In coda, dietro al nostro sidecar, c’è una automobile Lada, che sembra nuova, appoggiato alla portiera un anziano russo, tarchiato e pelato, con l’aria insofferente e, accanto a lui, una ragazza bionda, magrissima, alta e allampanata, probabilmente la figlia, che indossa un dozzinale vestitino a fiori e corre convulsivamente a destra e sinistra evitando code e compilando a tempo di record i terribili modelli. Tra un record e l’altro la ragazza si avvicina e, visto che sono piuttosto lento nel rifare le valige, mi esorta ad accelerare. Finito il lavoro non faccio in tempo a spostare il sidecar, che i bagagli della ragazza sono già sul tavolo, aperti e, mentre il padre li richiude, lei correndo mi supera sventolando le ultime carte da consegnare all’ufficio preposto. L’ultima stanza è vicino alle latrine e, credo, perennemente abitata da un trasandato impiegato, che mi accoglie mentre sistema una brandina sulla quale passerà la notte. Prende le carte, le timbra e le fotocopia, poi mi indica di consegnare il tutto al solito corpulento militare, al quale manca un altro bottone della camicia. Rivedendomi, mi saluta cordialmente e mi consegna i miei documenti, più un paio di lascia passare e inaspettatamente mi dice: “Andrej, carta per hotel e moto, sempre con te no perde, importante, ciao”. Deve essersi studiato la frase da dire in italiano, ormai siamo amici, abbiamo passato insieme otto ore ma finalmente siamo libero di partire. Rossana si accorge che su un documento manca una firma e si precipita dal nostro amico graduato, che riguarda l’incartamento con attenzione e poi dice: “No burocràzia, tutto bene”. Casco e giacca, Il sidecar si mette in moto, si va, proseguo per l’uscita, ma ecco un’altra sbarra, è l’ultima, dove si fa il controllo a video di tutti i documenti fatti ed è necessario ripresentare il passaporto, i documenti della moto e i lascia passare. Devo dire che il governo Russo è un campione mondiale di burocrazia, neppure noi Italiani riusciamo a fare tanto. Ce l’abbiamo fatta, siamo usciti in tempo dalla Bielorussia e …adesso ...siamo in Russia! Mancano più di seicento chilometri a Mosca e sono le sei e trenta di sera, decidiamo di fare benzina e di viaggiare non più di un'ora. Al primo distributore facciamo il pieno e riempiamo le taniche con la benzina a novantacinque ottani, che costa sessanta centesimi di euro al litro. Provo a chiedere alla benzinaia, in inglese, se ci sono posti dove fermarci a dormire, ma non parla inglese e neppure in italiano, ma, non so come, ci capiamo ugualmente quando ci spiega di continuare dritti e che lungo la strada per Mosca troveremo diversi posti dove fermarci a mangiare e dormire. Il nostro viaggio prosegue; una strada lunga e dritta taglia i fitti boschi di pini e dopo un centinaio di chilometri avvistiamo una trattoria con camere. Una stanza per la notte c’è ed è confortevole e pulita, ma la signora addetta all’accoglimento ci avvisa che questa notte ci sarà musica e ballo, poi, quando capisce che ciò non ci disturba, afferra con decisone i nostri pesanti bagagli e con passo spedito sale le scale fino alla nostra camera, poi mi consegna le chiavi del giardino dove parcheggiare il sidecar, dicendo: “mototsikl kolyaska” , così il nostro sidecar è stato ribattezzato per l’occasione: “Motoska”.

25 agosto

Anche questa mattina splende il sole e noi riprendiamo il nostro viaggio, mancano ancora cinquecento chilometri a Mosca. La strada prosegue dritta con lievi saliscendi, tra boschi di pini e betulle, incontriamo poco traffico, qualche UAZ e una vecchia e fumosa corriera, che riporta a casa gli studenti. Ora mancano un centinaio di chilometri a Mosca e sono le due del pomeriggio. Il traffico diventa caotico, ad ogni incrocio c’è un semaforo e una lunga coda, le auto superano da ogni lato, passando anche sui prati che costeggiano la strada; chi arriva dalla corsia opposta chiede strada e si lancia a gran velocità in sorpassi assurdi invadendo la nostra carreggiata e costringendoci a rifugiarci fuori dall’asfalto tra pietre e erba, proprio mentre alle nostre spalle sopraggiunge un autocarro che ci supera sulla destra tra il fossato e il terrapieno in ghiaia. La situazione è folle! Ho guidato in paesi dove le regole stradali non esistono, ma almeno si circolava in un caos lento e con proteste e abbondanza di clacson, qui tutti corrono più che possono e se ne fregano del rischio, anche se a bordo strada dei rottami di auto, residui di terribili incidenti, dovrebbero invitare alla prudenza. Avanziamo troppo lentamente e, dopo pochi chilometri, ecco il primo incidente che blocca la strada, ma nessuno si dà per vinto, alcuni sterzano sulla corsia opposta, altri tentano di attraversare un piccolo fosso per procedere sul prato. Allora noi ci fermiamo all’ombra di un cannone, posto su una piazzola in ricordo di una battaglia dell’ultima guerra mondiale. Aspettiamo con calma che il motore dell’URAL si raffreddi e intanto cerchiamo sul navigatore percorsi alternativi, ma purtroppo non ne troviamo, per cui la decisone è presa, si riparte, ma questa volta mi adatterò alla guida russa; così la “motoska” comincia a sgusciare tra le auto in coda, a entrare e uscire dal fossato, per poi proseguire la sua corsa nei prati senza fermarsi. Sono le sei di sera quando davanti a noi compaiono i grattacieli della periferia di Mosca.

Mosca

25 agosto domenica

Da più di mezz’ora stiamo percorrendo questo viale a quattro corsie, dove le auto, come un fiume in piena, schizzano da una carreggiata all’altra a gran velocità. C’è chi ci affianca e dal finestrino dice parole che non capiamo, altri fotografano mentre nuovissime moto fanno rombare i motori accompagnandoci per un breve tratto. Alzo lo sguardo e vedo i grattacieli che coprono il sole mentre lentamente scende a ovest. Qui tutto è ampio e si muove veloce, subito si percepisce la frenesia della più grande metropoli d’Europa, dodici milioni di abitanti. Giunti davanti alla piazza Rossa, un po’ spaesati fermiamo il sidecar e ci soffermiamo a guardare le cupole di San Basilio e le rosse mura del Cremlino. Non possiamo attardarci perché non ho prenotato, dobbiamo trovare un hotel e provo a farlo con il telefono cellulare, ma tutti dicono di essere al completo. Mentre sto con il telefono in mano passano molti taxi, così mi viene l’idea di chiedere informazioni. Il primo che si ferma è un taxi giallo, ma il suo conducente non parla inglese e men che meno italiano e, pur senza capire, mi fa cenno di salire, nello stesso momento si ferma anche un altro, che, pur non avendo le insegne ufficiali, sembra più sveglio e parlando in inglese capisce subito cosa voglio, spiegandomi che a soli quattro chilometri dalla Piazza Rossa c’è un grande hotel che ha ancora delle camere disponibili. “OK” dico, subito il taxista accende le quattro frecce e, partendo velocissimo, mi fa cenno di seguirlo, così ci lanciamo all’inseguimento rischiando di finire schiacciati da un vecchio camion che non vuol saperne di lasciarci passare sulla destra. Finalmente raggiungiamo la meta, ma una sbarra ci impedisce l’entrata al signorile quartiere del Mariott Hotel. Il guardiano capisce che siamo turisti e futuri clienti dell’albergo, così ci fa passare lasciandoci parcheggiare davanti all’entrata dell’Hotel. Il solerte taxista, con l’espressione soddisfatta, ci presenta il conto di quei quattro chilometri che abbiamo percorso come se fossimo inseguiti e vuole novanta euro ed è così che inizia la controversia, inizialmente in inglese stentato e poi con colorite frasi in italiano. Manca poco che passiamo alle mani, fortunatamente arriva un omone dall’espressione da duro, in abito e cravatta neri; è il portiere dell’albergo, che m’invita a parcheggiare il sidecar in un posto riservato e a recarmi alla reception, poi scambia due parole con il taxista il quale si riavvicina e tendendomi la mano dice: “Sorry, how much do you want to pay me”, so benissimo che non dovrei pagargli più di dieci euro, ma ho solamente un biglietto da cinquanta euro e sicuramente non avrò indietro il resto, così lo pago e gli dico: “Non farti più vedere, perché ho capito che volevi farmi pagare tutta la tua giornata di lavoro” e se ne va stropicciando in mano il bigliettone sorridendo e mugugnando qualcosa che per fortuna non capisco. Alla reception mi dicono che la camera doppia c’è ed è al quattordicesimo piano, con splendida vista fino al alla Piazza Rossa, un po’costosa, centosessanta euro, ed è disponibile per sole due notti. Ormai sono le sette e mezza di sera, non abbiamo voglia di riprendere le ricerche, così accettiamo e per la terza notte ci penseremo. Mosca, vista dalla vetrata della nostra camera, dopo una doccia calda e con addosso vestiti puliti, è bellissima. Scesi alla reception, il maitre d’hotel ci consiglia il vicino ristorante di pesce, così non dobbiamo uscire dal quartiere sorvegliato. All’ingresso del ristorante ci apre la porta un altro omone in abito nero, mentre l’addetta al ricevimento dei clienti ci fa strada ad un tavolo. Il piatto tipico del locale è una cascata di gamberi cotti in diverse maniere e serviti su una montagna di ghiaccio, poi del caviale da gustare con delle frittelle di patate e birra scura russa. Terminata la cena, ci accomodiamo sulla terrazza dell’hotel per sorseggiare dell’ottima wodka, mentre s’alza il vento freddo della notte russa.

Siamo in piedi di buon mattino. Apro la finestra e l’aria fredda invade la stanza insieme alla luce del giorno. Cinquanta metri sotto il nostro balcone passa un’incessante fila di persone, che, come formiche, seguono un invisibile percorso recandosi al lavoro. Sono le nove e la processione degli impiegati non è ancora finita, noi invece, con scarpe comode e zaino sulle spalle, siamo pronti per riempirci gli occhi delle meraviglie di Mosca. Ad aspettarci c’è un taxi, ma questa volta abbiamo contrattato in anticipo il prezzo. Oggi il traffico è un unico ingorgo dall’hotel fino alla piazza Rossa e, anche se il prezzo del taxi è onesto, decidiamo che d’ora in poi ci sposteremo con la metropolitana, perché è la più bella del mondo e ogni stazione è un museo sotterraneo, poi con ottanta centesimi di euro si può viaggiare tutto il giorno in questo labirinto sotterraneo dove ogni giorno passano nove milioni di persone. La piazza Rossa Il taxista ci fa scendere nel punto in cui c’eravamo fermati ieri sera con il sidecar, mi guardo attorno, ma del truffaldino taxi bianco oggi non c’è traccia. Prima di entrare nella piazza Rossa dobbiamo sottoporci al controllo del metaldetector, e posare sul nastro trasportatore, tutte le attrezzature fotografiche, cineprese e cellulari. Oggi c’è una grande festa nazionale e la piazza è ingombra di bancarelle, che vendono matriosche e colbacchi con lo stemma comunista, mentre al centro c’è un grande palcoscenico dove sta esibendosi il coro dell’armata rossa e nell’aria riecheggia il canto popolare: “Katiusha”. Sopra le bancarelle e sopra le teste della moltitudine, brillano i riflessi e i colori delle cupole di San Basilio, mentre dall’altra parte della piazza si ergono le mura rosse del Cremlino. È una favola, che ho immaginato di vivere nel silenzio di una notte d’inverno, così, estraniandomi dalla folla, per un attimo mi è apparsa la piazza deserta coperta di neve. Siamo turisti, per cui non dobbiamo lasciarci sfuggire la vista della basilica, in fondo c’è solo da fare un biglietto e aspettare con pazienza che questa fila avanzi fino al nostro turno. Entriamo nella basilica e con passo lento osserviamo il labirinto di buie stanze dagli spessi muri di pietra sui quali si possono ammirare antiche icone, mentre dai sotterranei, proviene un canto liturgico che rende il luogo mistico e misterioso. La giornata è ancora lunga, facciamo una breve sosta, poi riattraversiamo la piazza fermandoci ad osservare una babushka (*nonna), che insegna ad una bambina ad intrecciare i fili di lana per farne una treccia colorata.

26 agosto il Cremlino 

Ancora prima di vedere l’entrata finiamo risucchiati da una coda di visitatori, che, centimetro dopo centimetro, avanzano lentamente verso quella che noi crediamo essere la biglietteria. Dopo mezz’ora, e una lunga lotta con una signora siberiana che vuole ad ogni costo superarci, ci rendiamo conto che bisognava fare il biglietto da un’altra parte, per cui Rossana resta in coda, in buona compagnia delle signora siberiana, mentre io corro ad acquistare i biglietti. È una corsa contro il tempo e, per fortuna, alla biglietteria c’è solo una giovane coppia con i figli, che però non si sbriga mentre con calma e pignoleria mostra alla cassiera documenti vari per ottenere uno sconto, allora io ci provo: “Sorry i’m a hurry, my wife is alredy in the queue” (mi scusi ho fretta, mia moglie è già in coda), mi capiscono e mi lasciano passare, mostro i passaporti e pago con la carta di credito. Ho i biglietti in mano e mi precipito verso l’entrata del Cremlino. Superata la coda, che ora è ancora più lunga, vedo Rossana che sta per salire la scala che conduce all’entrata, devo raggiungerla spingendo, sgomitando e scusandomi: “Sorry, sorry”. Poi m’infilo sotto le transenne e proprio in quel momento arriva una compagnia di Coreani, che, cercando di intrufolarsi, mi respinge. Non posso lasciare Rossana sola vicino alla meta senza biglietti e documenti, per cui, con la forza di chi deve, fingendo di non essermi reso conto di ciò che sto facendo, spingo indietro i più facinorosi in modo di intrappolarli tra la ringhiera delle scale e le transenne, poi con un balzo salto lo sbarramento e sgusciando tra la gente pigiata lungo la scala raggiungo Rossana e la signora siberiana, che non hanno perso neppure una posizione. Marmo bianco e vetro, dalle linee essenziali, è il palazzo di stato, costruito nel 1961 quando al governo c’era Nikita Chruščëv, questa è la prima cosa che vediamo entrando al Cremlino. Dall’altra parte della piazza c’è il palazzo del governo costruito dallo zar Nicola I° Romanov nell’anno 1849 in classico stile russo. Fu Lenin a riportare la sede del governo sovietico da San Pietroburgo al Cremlino, dopo la rivoluzione dell’ottobre 1917, quando le sue mura furono simbolicamente verniciate con il colore della rivoluzione, il rosso. Inoltrandoci in questa cittadella fortificata, entriamo e usciamo da cattedrali ortodosse adornate da antiche icone; poi accediamo alla cattedrale dell’Arcangelo Michele, dove allineati si trovano decine di sarcofaghi contenenti le spoglie dei grandi zar di Russia. C’è tutta la dinastia dei Romanov, la dinastia dei Rurik con il capostipite Basilio primo e c’è anche Ivan il terribile. Da molte ore camminiamo con passo lento, ammirando opere d’arte, diamanti e preziose uova Fabergé, ormai i piedi non vogliono restare nelle scarpe e le gambe si rifiutano di proseguire. Rossana controlla il suo conta passi e scopre che abbiamo percorso quindici chilometri tra musei e cattedrali, ma non è ancora finita, dobbiamo riattraversare il Cremlino e tornare in piazza Rossa per acquistare le immancabili matriosche e altri souvenir. Decidiamo di prenderci una pausa sedendoci all’ombra del più grande cannone spara pietre, costruito per volere dallo Zar Pushka nel 1586, lungo cinque metri e mezzo dal peso di quaranta tonnellate di ferro decorato, ci vollero duecento cavalli per spostarlo, ma pare che non abbia mai sparato un colpo. Ci spostiamo di poco per risederci accanto alla più grande campana del mondo, commissionata dall’Imperatrice e autocrate di tutte le Russie, Anna Ivanovna Romanova, nipote dello Zar Pietro il Grande, ma anche questa grande opera in bronzo non riuscì a suonare, perché si ruppe in fase di fusione e rimase per sempre muta davanti alla cattedrale dell’Arcangelo Michele. Ripercorrendo i vicoli del Cremlino, tra la cattedrali dell’Annunciazione e della Dormizione, rubo l’immagine di una giovane ballerina che prova e riprova i passi del gran ballo, che questa sera si terrà al palazzo del governo. Un ragazzo la riprende per catturare la bellezza di quei passi di danza che cercano la perfezione. Uscendo dal Cremlino attraversiamo un parco fiorito, dove seduti sulle panchine o distesi nel prato si riposano gli esausti visitatori, dobbiamo sbrigarci perché tra poco al giardino Alexandrovsky, davanti alla fiamma eterna del milite ignoto, ci sarà la cerimonia del cambio della guardia. In testa hanno il cappello dal grande frontino e la giacca ornata con cintura e mostrine dorate, sono tre soldati russi che avanzano lanciando in avanti una gamba per volta così in alto da formare un angolo retto con l’altra ben piantata a terra. Il fucile, nella mano sinistra appoggiato alla spalla, mentre il braccio destro, con un movimento fiero ritma il susseguirsi dei passi; non sono quei i passi veloci e graziosi della danzatrice incontrata tra le basiliche del Cremlino, ma è una danza di guerra che entusiasma e, allo stesso tempo, fa sorridere il pubblico. Dobbiamo sbrigarci a fare le compere di souvenir, perché tra poco la piazza Rossa sarà chiusa per accogliere lo spettacolo della lirica che la trasformerà in un unico grande palcoscenico. Con gli zaini pieni di matriosche, colbacchi e altri souvenir rientriamo in hotel, questa dovrebbe essere l’ultima notte, ma non abbiamo intenzione di riprendere la ricerca di un altro posto dove pernottare, per cui chiedo se è possibile fermarsi ancora una notte. L’addetta alla reception ha l’espressione di chi s’aspettava la richiesta, cerca sul computer, poi su un registro e soddisfatta ci dice: “Potete mantenere la vostra stanza ancora per una notte, ma vi costerà di più”. Resto piuttosto contrariato da questa proposta e chiedo come mai dovrò pagare di più, ma la risposta è evasiva, adducendo improbabili cambi di stanza per altri clienti, che avevano prenotato prima di noi. Non ho voglia di prolungare la discussione e neppure di mettermi alla ricerca di un altro hotel, per cui, accetto. Seduti ai tavolini della terrazza dell’albergo stiamo facendo considerazioni di come Mosca sia molto più cara del resto della Russia, quando arriva il cameriere offrendoci una wodka. Dopotutto siamo turisti di passaggio, arrivati a Mosca con la nostra: “Chernyy Motoscha” (storpiatura del russo -sidecar nero) e il resto non conta.

La metropolitana e il Gorky Central Park (Park Kultury)

27 agosto

Alla reception ci consegnano la piantina della metropolitana. La stazione è a soli quattrocento metri dall’hotel e mentre il flusso della gente va verso gli uffici del quartiere, noi, come salmoni, risaliamo la corrente lungo il viale Kozhevnicheskaya, fino alla stazione della metropolitana: la: "Paveletskaya". La metropolitana Con la mappa dei percorsi in mano guardiamo attoniti i cartelli delle indicazioni scritti in cirillico, per fortuna le tratte sono indicate con diversi colori. Dobbiamo seguire la traccia verde fino alla stazione Okhotny Ryad, qui scendiamo e proseguiamo cercando il percorso rosso, che ci porterà fino alla stazione del parco. Anche fare il biglietto è difficile, ma una volta capito il sistema, con meno di tre euro possiamo utilizzare la metropolitana per un’intera giornata. Superato il tornello ci troviamo in un labirinto di scale mobili che conducono sottoterra, ma il colore della tratta diventa marrone, per cui stiamo sbagliando, allora seguiamo un’altra scala mobile che scende ancora più in profondità; dobbiamo restare ben fermi alla nostra destra per non intralciare chi ha fretta e corre di gradino in gradino per non perdere la coincidenza. Scesi quaranta metri sottoterra abbiamo ecco la linea verde. Non siamo più preoccupati di trovare la strada giusta, perché potremmo fermarci qui, dove le scale mobili e i lunghi corridoi hanno lasciato posto ad un museo fatto di alte ed eleganti volte in rodonite rosa, in stile art decò, adornato di bassorilievi raffiguranti scene di feste e vita agricola, statue in bronzo e l’immancabile falce e martello simbolo del comunismo. Alla nostra sinistra si ferma un convoglio, dovrebbe essere il nostro. Sale gente con la faccia di chi da anni ogni giorno viaggia su questi vagoni per recarsi al lavoro, noi, invece, siamo emozionati e vorremo chiedere informazioni, ma preferiamo mantenere il comportamento riservato di chi sa bene dove andare. Sopra la porta si accende una scritta luminosa e non solo in cirillico: “Okhotny Ryad”, un’altra stazione museo costruita con volte in marmo, è la stazione dove dobbiamo scendere e trovare il percorso rosso. Questa volta non abbiamo troppe difficoltà perché l’indicazione per la via rossa è ben evidente e in pochi minuti raggiungiamo la stazione per il Gorky Park. Questa stazione è costruita in marmo grigio con stucchi raffiguranti fasi giornaliere della vita, dal lavoro agricolo allo sport e ai giochi dei ragazzi. Potremmo continuare tutta la giornata e forse non basterebbe un settimana di viaggi sotterranei per ammirare le duecento stazioni della metropolitana, ma noi siamo arrivati e dobbiamo fare delle scelte, non possiamo restare per sempre a Mosca.

mappa metropolitana di Mosca

 metropolitana di Mosca

Una stazione della metropolitana

Центральный парк культуры и отдыха

Il parco della cultura e del tempo libero

Gorky Park

(Dedicato al drammaturgo e scrittore russo, Maxim Gorky)

Usciamo dai sotterranei e il sole splende, camminando attraversiamo il ponte di S. Andrea e in lontananza vediamo le cupole di San Basilio e le mura del Cremlino; poi giù al Gorky Park e seguendo la Moscova cantiamo Wind of change: Seguo la Moskva giù al Gorky Park ascoltando il vento del cambiamento una estiva notte d'agosto i soldati passano oltre ascoltando il vento del cambiamento. Il mondo è vicino avresti mai pensato che noi potessimo essere così vicini, come fratelli? Era il millenovecento ottantanove e Michail Sergeevič Gorbačëv stava cambiando l’Unione Sovietica, le su parole furono: ““È permesso tutto, …quello che non è vietato dalla legge”, così, quando ancora i jeans erano merce di contrabbando, allo stadio Lenin arrivò l’America con Bon Jovi e l’Inghilterra con Ozzy Osburne ed ebbe inizio la Woodstock russa. Più di centocinquantamila persone rimasero per due giorni ad ascoltare i miti vietati e la musica del demonio capitalista. Da quel giorno i rockers russi non dovettero più costruire le chitarre elettriche con i microfoni rubati nelle cabine telefoniche, per poi nascondersi a suonare usando come amplificatori vecchie radio. I gruppi Russi dei: “Kino” e dei “Gorky Park” uscirono allo scoperto cantando le loro canzoni di protesta e il palcoscenico fu proprio il parco della cultura e del tempo libero di Mosca, che fino a pochi giorni prima era riservato ai cori dell’armata russa e al teatro del realismo comunista. 1.120.000 mq, è l’estensione del parco, una passeggiata di sedici chilometri lungo la Moscova, tra aiuole fiorite, boschi, musei, statue e un lago per navigare con il pattino o con piccole barche a vela. Una foresta nel centro della città fatta di rose profumate, fresie, tulipani variopinti e poi fiori antichi ormai dimenticati, che sbocciavano ogni estate nelle case di campagna. Abbiamo seguito ogni sentiero camminando per ore, adesso ci distendiamo su un prato al sole osservando un gruppo di ragazzi che con la chitarra intonano canzoni russe, altri fanno sport, mentre degli anziani passeggiano lentamente. Dopo aver visitato il museo d’arte moderna, riprendiamo il cammino lungo la Moscova, fermandoci a guardare, dall’altre parte del fiume, l’imponente palazzo del Ministero della Difesa della confederazione russa.

Gorky Park
Gorky Park

La Moscova

Sto scattando delle fotografie, quando, sigaretta in bocca e fumo che esce dal naso, s’avvicina un vecchio marinaio d’acqua dolce invitandoci a navigare, per pochi rubli, lungo la Moscova fino alla piazza Rossa, e ritorno. L’acqua della Moscova è scura e profonda e sembra gelata, avanziamo contro corrente, con il vento che spazza il ponte. Dal fiume vediamo le cupole di San Basilio e le mura del Cremlino, ma ad incuriosirmi è un altissimo monumento in acciaio, bronzo e rame, che sembra uscire dalle profondità delle acque. La cosa più strana è che pur rappresentando le tre caravelle di Cristoforo Colombo, al timone della santa Maria, Cristoforo Colombo non c’è, bensì c’è Pietro il Grande Zar della Russia dal 1682 al 1725. L’artista e architetto Zurab Konstantinovič Cereteli realizzò questa imponente statua nel 1992 per l’anniversario dei cinquecento anni della scoperta dell’America, ma in America nessuno la volle a causa della sua bruttezza, fu quindi riciclata per l’anniversario dei trecento anni della flotta russa, così Cristoforo Colombo sbarcò cedendo il timone dell’ammiraglia a Pietro il Grande. Si dice che, oltre ad essere tra le statue più alte al mondo, abbia il primato della più brutta, tanto che il Sindaco di Mosca provò a cederla al Sindaco di San Pietroburgo che declinò l’offerta. La barca prosegue seguendo le mura del Cremlino, poi passa sotto il modernissimo ponte panoramico del Zaryadye Park e proprio di fronte alla piazza Rossa e inverte la rotta per tornare indietro seguendo la corrente. Il sole è al tramonto quando noi lasciamo il Gorky Park, mentre arrivano molti ragazzi che stanno preparandosi al concerto di musica che si terrà questa sera. Risprofondiamo nel sottosuolo di Mosca per cercare la linea della metropolitana, che ci riporterà alla stazione di Paveletskaya.

È ancora presto per rientrare all’hotel, così ci fermiamo in un grande magazzino per acquistare ancora qualche ricordo di Mosca. Non si tratta di magazzini popolari, dove si può trovare di tutto a buon prezzo, ma di un centro raffinato, fatto di cristalli e lucido acciaio. Per entrare è necessario avere un documento e la carta di credito va benissimo. Le vetrine sono fornitissime di costosissima moda italiana, di profumi e di tutto ciò che è lussuoso. Troviamo un bazar dove si vendono matriosche ed altri souvenir, acquistiamo statuine e palle di vetro con la neve e compriamo anche un coltellaccio fatto a mano con un lupo scolpito sulla lama, per il quale serve avere una speciale certificazione. Uscendo dal grande magazzino vediamo fermarsi tre grosse auto nere. Due tizi in abito scuro scendono velocemente ed aprono ossequiosi la porta dell’auto, da cui escono, un signore piuttosto in carne, con pochi ma lunghi capelli bianchi, giacca lucida e occhiali scuri, insieme a un’appariscente ragazza bionda e si dirigono all’entrata scortati da due guardie del corpo. Ormai è buio e la giornata è finita, attraversiamo il viale che ci separa dalla sbarra d’accesso al quartiere dell’hotel. Il custode ci riconosce e ci lascia passare senza formalità. È l’ultima sera a Mosca, perciò decidiamo di ripetere la cena a base di gamberi e caviale, poi rientriamo in albergo e come le precedenti sere ci sediamo sulla terrazza, questa volta il cameriere arriva con due bicchieri e una bottiglia di vodka offerta dalla direzione dell’hotel.

Il ritorno

 28 agosto

C’è il sole e, come ogni mattina affacciandomi alla finestra, osservo la sfilata dei lavoratori che ininterrotta segue lo stesso percorso di ogni giorno. Oggi lasciamo Mosca; abbiamo raggiunto le tre mete: “La foresta bielorussa, Minsk e Mosca”, il viaggio ora prosegue verso i paesi baltici, per poi ritornare verso casa senza una precisa destinazione. Dopo tre giorni di abiti puliti, taxi e metropolitana, mi rendo conto che gli stivali, i calzoni e la giacca da moto hanno l’odore del viaggio e che la nostra “Motoscha” ci ha aspettato paziente pronta a ricominciare il viaggio. Facciamo il punto di rotta cercando sulla carta geografica una destinazione interessante, il Sebezhsky National Park, che dista circa seicento chilometri da Mosca, sul confine tra Lettonia e Bielorussia. La foresta russa Riattraversiamo il centro di Mosca aggrovigliandoci tra milioni di automobili, poi la strada si allarga a quattro corsie e la “Motoscha” attraversa veloce i quaranta chilometri di periferia. La metropoli è alla nostre spalle e davanti a noi seicento chilometri di boschi e praterie. A bordo strada incrociamo improvvisati venditori di funghi, marmellate e frutti di bosco, ma il traffico è scarso e anche gli affari. Abbiamo percorso più di duecento chilometri e il panorama non cambia, ancora boschi, laghi e pianure umide dove le betulle crescono incontrastate. Tra un dosso e l‘altro incrociamo dei camion che trasportano legname, poi all’improvviso un inferno di auto accartocciate e camion ribaltati, la polizia ci fa rallentare e attraversare lentamente quello che sembra il deposito di uno sfascia carrozze. Non abbiamo ancora fatto una curva e non abbiamo neppure incontrato una casa, quando a bordo strada in una zona di sosta scorgo una vecchia Uaz e in esposizione pelli di animali. Ci fermiamo per riposare, ma anche curiosi di conoscere il tizio, che seduto sullo sgabello sta pulendo il suo fucile. Quando ci vede arrivare ripone l’arma e si precipita a mostraci tutte le pelli, non è facile capirci a parole, ma a segni ce la caviamo e lui con carta e penna scrive il costo in rubli di ogni pelle. La sua casa è la foresta, è un cacciatore e anche se il suo commercio appare un retaggio d’altri tempi, il rito della caccia è una antica tradizione e solo chi conosce queste terre insidiose e solitarie può inoltrarsi nel fitto del bosco. Al termine di una lunga trattativa ci troviamo con due cappelli di pelliccia in mano, uno con la coda alla Davy Crockett e l’altro da avviatore, così adornati abbandoniamo la strada principale seguendo altre vie che s’inoltrano nel parco naturale di Sebezhsky. Attraversiamo un piccolo villaggio di colorate case in legno, che però sembrano abbandonate, poi entriamo in una foresta di pini rossi dalle forme contorte e stravaganti. Abbiamo percorso molti chilometri e vorremmo fermarci nel parco naturale per la notte, ma non siamo capaci di trovare un posto dove pernottare e neppure dove campeggiare, forse ci siamo allontanati troppo dalla zona dei laghi, cosi impostiamo il navigatore verso Terehova, la prima cittadina dopo il confine in Lituania. Seguendo i consigli del satellitare imbocchiamo uno sterrato che s’inoltra tra le paludi dove le betulle hanno il sopravvento, poi ci ritroviamo sulla strada principale a pochi chilometri dalla Lituania. Non è troppo tardi per attraversare la frontiera, così in poco più di un’ora abbandoniamo la Russia. Lituania “Sono le cinque di sera al prossimo paese ci fermiamo e cerchiamo un hotel” e convinto del programma ci fermiamo a Zilupe una piccola cittadina, un po’ triste e disadorna. “Siamo in Europa”, così penso mentre fermo due ragazze per chiedere informazioni sugli hotel della zona e cerco di formulare la domanda in inglese, ma le ragazze non riescono a capire, allora attivo il traduttore del telefono cellulare mentre si fermano anche altri passanti che, capita la richiesta, iniziano a dare spiegazioni contraddittorie e poco comprensibili. Devo decidere di chi fidarmi e le indicazioni più precise provengono da un signore in canottiera a calzoni corti, che, dopo aver appoggiato a terra il sacchetto della spesa, inizia a sbracciarsi indicando di svoltare a sinistra, poi ancora a sinistra e destra e siamo arrivati. Strada facendo, nascosto in un trasandato giardinetto, troviamo un bancomat, ma non funziona, dopo vari tentativi una signora stanca di aspettare, interviene in nostro aiuto avvisandoci che in paese non ci sono bancomat internazionali e che per prelevare bisogna avere la tessera della banca locale. Considerato che riusciamo a capirci gli chiedo dell’hotel e lei conferma a gesti la prossima strada a destra e siamo arrivati. “La prossima strada a destra? Ma non c’è niente!”. Poi guardo meglio e a metà via c’è un insegna rossa, mezza cancellata, con scritto “hostel”. Mi fermo proprio davanti e provo a bussare, non c’è nessuno e la porta è aperta, entro e mi trovo su una stretta e sporca scala, che sale verso un corridoi buio e altrettanto sporco, così subito esco facendo attenzione a non inciampare tra i sacchi d’immondizie imputridite, che giacciono nel sottoscala. Appena fuori avviso Rossana: “Andiamocene, è un posto orribile”. Forse non abbiamo capito bene, forse non era quello l’hotel del paese, ma di sicuro è meglio proseguire per arrivare in una città più grande. Il navigatore indica cento-ottanta chilometri per Daugavplis; è dalle otto del mattino che viaggiamo, ma non ci arrendiamo, si va. Anche se sterrata il Tom-Tom ci consiglia una scorciatoia, che ci farà risparmiare una cinquantina di chilometri. Attraversiamo boschi e campagne immersi in un turbinio di polvere, facendo una sola una breve sosta accanto a una chiesuola azzurra, che con la sua cupola dorata riflette violentemente la luce del sole ormai basso all’orizzonte. Finalmente imbocchiamo la strada asfaltata e l’aria soffia via la polvere che ci ricopre. Mancano solamente settanta chilometri alla meta, ancora un’ora di salti e scossoni e comincia anche a piovere trasformando la polvere che ci portiamo addosso in fango. Sono le otto di sera quando parcheggiamo il sidecar davanti all’hotel Latgola a Daugavplis e mentre scarichiamo i bagagli un gruppo di turisti coreani scendono dal pullman puliti e asciutti chiacchierando della visita alla basilica dalle cupole azzurre e dorate; noi invece siamo bagnati, infangati e sembriamo provenire da chissà quale lontanissima terra, ma una camera c’è anche per noi. In un attimo riempiamo la stanza con le tute antipioggia grondanti d’acqua e con gli stivali, che nascondono sotto la suola un po’delle paludi russe. Poi sprofondo tra le lenzuola insieme agli ottocento chilometri percorsi e sotto le palpebre chiuse scorrono confondendosi le immagini del viaggio.

29 agosto

Dev’essere la sindrome dell’asino, quando, sentendo la stalla vicina, accelera l’andatura. La mattina del ventotto agosto mi sento come se l’avventura fosse finita e non restasse altro che percorrere i duemila chilometri che mancano per ritornare a casa. Non si tratta di nostalgia e neppure del luogo comune che sostiene: “Da nessuna parte si sta meglio che a casa”, è soltanto una cosa che dobbiamo fare e mi consola l’avere tra i bagagli i cappelli di pelliccia, un coltellaccio da cacciatore con impresso sulla lama un lupo, poi le matriosche e altri innumerevoli souvenir. Viaggiamo e senza pensarci troppo e mentre percorriamo strade secondarie osservando scorrere linde casette di legno e boschi di betulle, torna in mente il ricordo di quando trent’anni fa, proprio ad agosto del millenovecento ottantanove, due milioni di persone si presero per mano formando una catena umana lunga seicento chilometri. La chiamarono la via Baltica per l’indipendenza e noi la stiamo percorrendo. Viaggiamo lentamente lungo strade di campagna tra campi coltivati, fattorie e boschi di pini rossi. Abbiamo oltrepassato Vilnius e anche Varèna, la Lituania è ormai alle nostre spalle quando arriviamo a Augustòw in Polonia. È ora di fermarci e questa piccola cittadina, contornata da laghi collegati tra loro da canali navigabili, sembra ospitale; infatti troviamo subito una stanza all’hotel: “Warszawa SPA & Resort “ e dalla terrazza della nostra stanza vediamo tramontare il sole tra i canneti nel lago.

30 agosto

Anche oggi ci aspetta una sgroppata di chilometri e sosta per la notte, il progetto è di avvicinarci il più il possibile al confine con la Repubblica Ceca. La strada è noiosa e i lavori in corso hanno ristretto la carreggiata, inoltre l’asfalto ha ceduto sotto il peso dei camion formando due corsie più larghe del sidecar che mi costringono a correggere continuamente l’andatura. Alle cinque di sera non ne possiamo più di questo noioso andare e decidiamo di fermarci nel primo paese che troviamo nei pressi di Katowice, ma di venerdì i Polacchi si sposano e così passiamo di paese in paese provando a chiedere una stanza, ma nessuno ci dà retta, sono tutti impegnatissimi a imbandire i tavoli, a decorare le sale con striscioni e fiori, mentre i musicisti provano brevi accenni di polke e mazurke. “Le camere sono tutte prenotate fino a domenica”, mi dice una cameriera di passaggio con in mano un cesto di fiori bianchi, mentre spilucco da un tavolo imbandito delle olive e una tartina. Stiamo girando a caso, quando passando vicino un vecchio muro in sassi, intravedo, mezza coperta d’edera, un insegna hotel e uno sgangherato, ma signorile, cancello in ferro battuto semi aperto, che invita ad entrare. Fermo il sidecar e varco il portone che sembra s bloccato in quella posizione, da anni; poi, nel mezzo di un antico parco, l’hotel c’è davvero ed è una vecchia villa di stile liberty, con la quale il nostro sidecar si abbina perfettamente. Vedendoci arrivare il proprietario si toglie il grembiule, si sistema la giacca, ci viene incontro e, ancora prima che pronunciamo la richiesta di una stanza, racconta che ha degli amici a Napoli che gli hanno insegnato l’Italiano, poi ci offre due birre, che scoliamo volentieri seduti su una panchina all’ombra di una centenaria quercia, osservando dei gatti che entrano ed escono dalla reception con l’atteggiamento da veri padroni del caseggiato. Poco dopo il proprietario ritorna e questa volta ha messo anche la cravatta, ma quando gli chiediamo una camera per la notte ci risponde costernato: “Purtroppo l’albergo è in ristrutturazione e non ho camere nuove, posso offrivi solo delle vecchie stanze” . Sono le sette di sera, di certo non è il caso di fare i difficili e poi è solo per una notte, così entriamo nell’albergo; odora di polvere e di mobili più vecchi che antichi, i quali, comunque, mantengono l’aspetto di una decaduta signorilità. Si unisce anche la figlia salendo precipitosamente le scale che portano nel corridoio delle camere, ma le sottrae alla nostra vista chiudendo le porte e dicendo ad alta voce: “Questa no, questa è ancora da fare” , fin quando: “ Se vi accontentate, questa è libera”.La stanza mi ricorda una colonia degli anni sessanta, dove passavano le vacanze estive i figli dei parrocchiani. “Vi cambio le lenzuola e qui c’è il bagno, gli asciugamani li porto subito” Il proprietario è sparito e la figlia continua a correre su è giù cercando di sistemare e ripulire alla meglio la camera, poi annuncia che la cena sarebbe stata pronta in mezz’ora. “È tutto molto vecchio e odora di vecchio, certo che questo posto deve aver visto tempi migliori”, così dico, mentre in mutande spalanco la finestra sul parco e al naso mi arriva l’odore della cipolla che soffrigge per la nostra cena. Mentre scendo le scricchiolanti scale, il proprietario mi consiglia di parcheggiare il sidecar al riparo perché durante la notte è prevista pioggia, apre un portone e la Motoscha si accomoda tra due mucchi di mele rosse e profumate e alle spalle una pila di vasetti di miele, è uno dei depositi dell’azienda agricola. Usciamo mangiando una mela a testa e già comincia a piovere. Zuppa di verdure, maiale fritto con salse varie e birra a volontà, è la nostra cena, poi ci accomodiamo nel portico con una bottiglia di Metaxa Dodici Stella e due bicchieri.

31 Agosto

Il cielo è grigio, ma ancora non piove, il progetto è quello di arrivare oggi in Austria e fermarsi a dormire dopo Vienna e poi il primo di settembre tornare a casa scavalcando il passo del Grossglockner. La meta è l’Austria e non cerchiamo percorsi alternativi, seguiamo la stessa strada dissestata di ieri. Per quanto possa farlo la “Motoscha” filiamo veloci e in quattro ore siamo a Brno in Repubblica Ceca, dove oltre a un rabbocco di benzina infiliamo le tute antipioggia. “Post vacation blues”, ripeto mentalmente, mentre la strada scorre davanti alla ruota della moto e la pioggia batte sul casco accompagnata dal suono costante e profondo del motore. Penso: “Così la chiamano gli inglesi e anche il nostro viaggio di rientro è accompagnato dal ritmo di un blues lento. È la depressione post viaggio”. Inutile farsi illusioni, il tempo non migliorerà, la vacanza è finita, bisogna cambiare i pensieri, riprendere la quotidianità programmando il lavoro. La mia metamorfosi è già iniziata e non ho più voglia di sorridere. Ci fermiamo un centinaio di chilometri dopo Vienna, non resta che scolarci una birra da litro alla spina e cenare con crauti e wurstel in questa gasthaus, poi sprofondare addormentati nel silenzio della notte di un piccolo paesino austriaco, ed è subito la mattina del primo giorno di settembre.

Per ora di pranzo saremo a casa.

FINE

Andrea & Rossana

Commenti

bravi io e mia moglie l'abbiamo fatto nel 2016 ..minsk mosca , s petersburg, tallin riga etc....uno dei + bei viaggi mai fatti...ciao grazie

Tanti complimenti per la forza e il coraggio di sfidare posti bellissimi ma con tanti problemi e insidie possibili dietro a ogni angolo di strada , sono molto onorato di essere tra i Tuoi contatti.

Massimo Cortese